Ok, se parliamo di questo signore dai capelli ormai grigi e dalla faccia pulita non possiamo evitare di nominare i Sonic Youth quindi, se c’è bisogno di presentazioni, facciamole subito: Lee Ranaldo è stato uno dei fondatori dei succitati SY e prima ancora chitarrista alle dipendenze di Glenn Branca durante le sue prime, selvagge, cavalcate a più chitarre. Viene quindi da lontano Ranaldo, dalla New York dei “’70 e in particolare da quella situazione No Wave che in quegli anni nasceva e moriva; è stato uno dei padri dell’uso sperimentale della chitarra elettrica, rumorismi, sperimentazioni ed effetti in tutte le salse; chitarre smembrate, accordate nei modi possibili e impossibili, fisicamente maltrattate, persino appese per aria e lasciate fluttuare, libere di risuonare”…Ma questo non ha nulla a che vedere con “Electrim Trim”, o forse sì.

Il nuovo disco, prodotto dalla storica Mute segue una strada iniziata con “Between the Times and the Tides” (2012) prima e “Last Night on Earth” (2013) dopo. Per inteso la carriera di Ranaldo è piena di altri dischi da solista e progetti paralleli, ma sono quei due album che ho citato che andrebbero ascoltati per poter condividere quello che penso, ovvero che Lee, per quanto riguarda il songwriting, ha raggiunto il pieno controllo dei suoi mezzi espressivi.
Si tratta di canzoni (e nel caso di Ranaldo è meglio specificarlo), pezzi che a volte deragliano, perdono solo per un attimo il controllo per poi tornare ai lidi della forma canzone.
Con questo disco i suoni, le melodie e le liriche si fondono perfettamente, i Sonic Youth sono lontani, quasi impercettibili e sembra in realtà  più vicino l’amico e collega Jim O’Rourke.

Partiamo dall’esterno, dalla superfice, commentando la copertina, che rimarca due delle cose più care all’artista: da una parte la strada, il viaggio che essa rappresenta, un tema caro a Ranaldo e a tutta la Beat Generation (superfluo ricordare “On the Road” di Kerouac) che ha inspirato la sua gioventù e sembra continui ad inspirarlo ancora ai nostri giorni; da un’altra la presenza delle impronte dei pneumatici che disegnano un otto, l’infinito, l’infinita circolarità  presente nella musica. Sarà  un caso che il brano che preferisco e che continuo ad ascoltare in loop è “Circular (right as rain)” un tuffo nelle reminiscenze della vecchia scuola krautonica tedesca, nel giro di basso martellante per esempio, negli effetti della chitarra e perfino negli arrangiamenti dell’organo Hammond.
Il disco è composto da 9 brani, primo in ordine di apparizioni “Maroccan Mountains”, chitarre sciamaniche e voce salmodiante con il classico effetto simil-eco a cui ci ha abituati e che accompagna ormai quasi costantemente le composizioni del nostro uomo.
C’è spazio per la presenza di altri musicisti, vecchi e nuovi amici o parenti, come nel caso di Cody, il figlio, che si occupa di parte delle sonorità  elettroniche, disseminate un po’ ovunque.
In “Last Looks” ho trovato inaspettatamente Sharon Van Etten, avvistata di recente sul palco di Twin Peaks (se non avete ancora ascoltato “Are We There” che aspettate!), mentre alla batteria ritroviamo un altro ex Sonic Youth, ovvero l’immancabile Steve Shelley, maestro di ritmi intestarditi, che per tanti anni ha cullato le follie dissonanti della noise band per antonomasia.
In definitiva un disco compatto, ben strutturato e con una buona produzione, che piacerà  di sicuro a chi segue l’artista.

Non troverete cose nuove, tranne, forse, nell’ultima traccia, il video-clip della quale ci mostra crudamente cosa siamo diventati nell’epoca degli smartphone.