#10) SLOWDIVE
Slowdive
[Dead Oceans]
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Le chitarre eteree, i riverberi, i delay, le linee di basso, le rullate. Quell’intreccio di voci tra Neil Halstead e Rachel Goswell. Dopo ventidue anni gli Slowdive sono tornati, con gli stessi ingredienti di allora ed è come se fossero sempre stati qui.

#9) BROKEN SOCIAL SCENE
Hug of Thunder
[Arts & Crafts]
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Dopo sette anni dall’ultimo lavoro il collettivo canadese realizza il suo quinto LP coinvolgendo 18 musicisti, tra cui Feist che canta la title track. Non solo sembrano divertirsi come non mai, ma scrivono anche delle ottime canzoni.

#8) GIRLPOOL
Powerplant
[Anti]

Cleo Tucker e Harmony Tividad abbandonano il sound da cameretta dell’album di debutto, aggiungono un batterista e chitarre distorte, ma continuano a confezionare filastrocche sghembe e intimiste, che ora hanno la forza di riempire un locale.

#7) THE NEW YEAR
Snow
[Undertow]

Un disco invernale, già  dal titolo, che chiude il cerchio tra l’inizio e la fine del mio 2017. Il talento di songwriters di Matt e Bubba Kabane, le distorsioni calde come un caminetto acceso, le ritmiche lente come una camminata sulla neve.

#6) COURTNEY BARNETT & KURT VILE
Lotta Sea Lice
[Matador]
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Un piccolo miracolo, l’australiana Courtney e l’americano Kurt si incontrano in uno studio di registrazione senza aver pianificato nulla e nascono canzoni che suonano spontanee e leggere come una conversazione tra due amici.

#5) GRIZZLY BEAR
Painted Ruins
[RCA]
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Per un album che ha rischiato di non venire mai alla luce, dopo che i membri della band avevano smesso di parlarsi, “Painted Ruins” suona incredibilmente compatto e mostra Ed Droste e soci musicalmente affiatati come non mai. A partire dai synth a briglia sciolta di “Mourning Sound” (la mia canzone dell’anno), il disco è pervaso da una sfrontata incoscienza, in contrasto con i testi, spesso criptici e cupi.

#4) ST. VINCENT
Masseduction
[Loma Vista]
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Quando non sembrava più possibile, Annie Clark alza ancora l’asticella e produce un’opera pop totale, dalla copertina alle scenografie del tour, prendendo in prestito tutte le armi del mestiere dalle hit da classifica, incluso il produttore Jack Antonoff. Dall’apertura ovattata di “Hang on Me”, passando per il caleidoscopio di “Los Ageless” e la ballata strappalacrime “Happy Birthday, Johnny”, il gioco è sfidare Taylor Swift sul suo stesso terreno.

#3) KELLY LEE OWENS
Kelly Lee Owens
[Smalltown Supersound]

Una delle migliori sorprese del 2017, l’album di debutto di questa ventottenne nata in Galles e ora residente a Londra è un crogiolo di techno, dream pop, elettronica e suoni esotici. Autoprodotto dalla stessa Owens, è un esordio raro per personalità  e capacità  di spaziare su territori molto distanti, offrendo in 46 minuti un percorso non soltanto mai noioso ma che presenta sorprese dietro ogni curva.

#2) GODSPEED YOU! BLACK EMPEROR
Luciferian Towers
[Constellation]
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Grazie a Dio c’è il Canada. Dove troveremmo altrimenti nel 2017 dei musicisti che registrino un disco come questo, accompagnandolo con un comunicato stampa in cui chiedono, tra le altre cose, di garantire l’assistenza sanitaria e la casa come diritti umani inalienabili? Se cercate degli ideali, insomma, li troverete qui, fiori che spuntano dalle rovine di cemento armato, melodie che emergono da oceani in tempesta, raggi di sole che squarciano il cielo nero. Il loro miglior album da “Lift Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven”.

#1) THE NATIONAL
Sleep Well Beast
[4AD]
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Ogni stagione della vita ha qualcosa da raccontare, ma solo i grandi sanno continuare a farlo mentre passano gli anni; Matt Berninger sta dimostrando album dopo album di essere in quella categoria. Nei testi di “Sleep Well Beast”, scritti insieme alla moglie Carin, ci sono le paure, le difficoltà  della loro relazione, ma anche gli equilibri trovati, le situazioni banali come le feste dalle quali non si riesce ad andare via. A fare da controcanto, come sempre, gli arpeggi e i giri di piano di Bryce e Aaron Dessner, le ritmiche di Bryan e Scott Devendorf. La novità  è che il suono stavolta ha più dinamica, ci sono assoli (!), drum machines, e esplorazioni di quel lato più lisergico finora confinato alla dimensione live; la costante è che i National sono ancora una delle band migliori in circolazione.