#10) STORMZY
Gang Signs and Prayer
[#Merky Records]

Dopo qualche singolo che aveva fatto drizzare le orecchie agli addetti ai lavori, l’esordio di Stormzy è un’epopea grime prevedibilmente bombastica (quanto è potente “Too Big for Your Boots”?) senza il timore di prendersi qualche momento di respiro per pregare (letteralmente). Nomen omen, insomma. Successo commerciale e (altissima) dignità  artistica della proposta vanno a braccetto per uno degli esordi dell’anno.

 

#9) LCD SOUNDSYSTEM
American Dream
[Columbia/DFA]
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Vai a vedere che alla lista degli ultimi regali del Duca Bianco al mondo deve andare ad ascriversi pure la reunion di James e soci. L’idea di riformare la band mi mette a disagio, piagnucolò James. Bene, dovrebbe metterti a disagio, lo spronò David. “American Dream” si dimostra il ritorno perfetto, tra rimandi alla migliore New Wave e conferma delle doti di Murphy come direttore della sua orchestrina dance-rock, tanto epico nella gestazione e nei suoni quanto disperatamente confessionale testi alla mano.

#8) LAWRENCE ENGLISH
Cruel Optimism
[Room40]

Un monolite di ambient dronico che costituisce forse il punto più alto della ricerca sonora dell’australiano. Le partecipazioni sono molteplici e di un certo peso – tra gli altri, Mats Gustafsson e Thor Harris degli Swans.
Necessaria messa in guardia: “Hammering a Screw” parte forte e all’improvviso, fateci attenzione se non volete rischiare l’infarto.

#7) SAMPHA
Process
[Young Turks]
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L’atteso debutto di Sampha Sisay stava per diventare ormai una chimera. Un nodulo alle corde vocali non deve aver certo accelerato le cose, ma “Process” fuga tutti i dubbi circa l’opportunità  del portare pazienza. Quella del recente vincitore del Mercury Prize è r’n’b/soul futuristica, degna di essere collocata affianco ai lavori dei vari Solange, FKA Twigs e James Blake.

#6) LOS CAMPESINOS!
Sick Scenes
[Wichita]

Onestamente faccio fatica a rassegnarmi al fatto che i Los Campesinos!, giunti alla sesta prova in studio, siano rimasti un gruppo tutto sommato di culto, ma tant’è. “Sick Scenes” è quintessenzialmente campesino: rumore, melodia, brio e malinconia in un calderone tenuto insieme dalle liriche di Gareth David, al solito confessionale fino al midollo, tra consueti riferimenti allo sport e una massiccia prevalenza di temi legati alla sua lotta (o forse sarebbe più corretto chiamarla danza?) con la depressione.

#5) THE NATIONAL
Sleep Well Beast
[4AD]
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Come si torna dopo il disco della maturità  e della consacrazione che è stato “Trouble Will Find Me”? Come si torna dopo quattro capolavori di fila? Come si torna quando tutti attendono il passo falso? Così. Si torna così. Con dodici pezzi che vedono Berninger e soci rimodernare appena i loro smoking con timide lucine ai led, mentre il cuore che vi batte sotto è sempre dilaniato dai ricordi e dalle angosce dell’uomo adulto dei nostri tempi.

#4) RYUICHI SAKAMOTO
async
[Milan Music]

Il senso e la poetica del nuovo album solista del maestro giapponese sono tutti nel poliglotta spoken word di “Full Moon” preso da “Il tè nel deserto” di Paul Bowles:
Poichè non sappiamo quando moriremo si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile, però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che senza neanche riuscireste a concepire la vostra vita? Forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno tante. Quante altre volte guarderete levarsi la luna? Forse venti. Eppure tutto sembra senza limite. Sconfitto un tumore alla gola, Sakamoto costruisce il suo giardino zen ambient-elettronico per sottrazione: ogni suono serve uno scopo preciso in questa ideale colonna sonora per un altrettanto ideale film di Andrei Tarkovsky.

 

#3) JULIEN BAKER
Turn Out the Lights
[Matador]
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Chiunque sia o sia stato clinicalmente depresso sa quanto faccia schifo non riuscire proprio a credere davvero nell’utilità  della vita. Il primo disco di Julien Baker si chiudeva con il verso I’m tired of washing my hands / God, I wanna go home, una preghiera ad essere ripresa in cielo, “‘chè quaggiù non ce la si fa; “Turn Out the Lights” si apre con l’impegno (vano) a crederci (Maybe it’s all gonna turn out all right / Well I know that it’s not, but I have to believe that it is), prosegue con piccoli cambi di abitudine salva-vita (le cinture di sicurezza di “Hurt Less”) e finisce con il ribaltamento totale di prospettiva di “Claws in Your Back” (I think I can love the sickness You made, “‘cause I take it all back, I change my mind, I wanted to stay). Julien sembra insomma aver finalmente riconciliato la sua fede cristiana con la sua identità  queer, in un disco che, fosse anche solo per questo motivo, è uno dei più importanti dell’anno.

#2) LORDE
Melodrama
[Republic Records]
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L’endorsement di David Bowie mi pareva un po’ avventato alla luce dell’esordio “Pure Heroin”, poi ho ascoltato “Melodrama” e mi è esploso il cervello. Con Jack Antonoff (già  Fun. e Bleachers e alle prese con una pletora di produzioni recenti, tra cui “MASSEDUCTION” di St. Vincent), Ella Yelich-O’Connor tira fuori il disco pop dell’anno: orecchiabile sì ma anche stratificato e subdolo, con un filo conduttore come un party per ventenni che si fa specchio del passaggio all’età  adulta e alla disillusione amorosa.

#1) KENDRICK LAMAR
DAMN.
[Aftermath/Interscope]

Una sorta di pre-Divina Commedia. King Kendrick si esamina attraverso la situazione socio-politica americana sfornando l’ennesimo capolavoro. A questo giro scompaiono gli omaggi alla musica “suonata” che costellavano “To Pimp a Butterfly”, mentre la trap si amalgama ad un hip-hop di marca più old school. è una bomba, inutile precisarlo, non solo a livello sonoro ma anche e soprattutto sul piano tematico e lirico, avvincente come solo Kendrick ci ha abituati ultimamente “” ulteriore prova l’uscita della versione in reverse dell’album che dona un feeling diverso all’intera storia.