Vi ricordate “The Hum” (disco del 2014)? Che album. Davvero bello, ben costruito e realizzato. Ok, lo avete bene in mente? Immaginate di averlo in mano, quel disco, buttatelo nel cestino della plastica (se non fate la differenziata nella discarica più vicina) e, in qualche modo, dovrebbe uscire “Microshift”.

Con questo tono aggressivo (ed anche ironico) vorrei parlare di questo cambiamento electro-pop inaspettato e non voluto (almeno da me) degli Hookworms: ce n’era davvero bisogno? Pensandoci bene no. Lo stile che avevano perseguito era interessante e poteva evolversi, per emergere sempre più verso un qualcosa di innovativo che comunque rimanesse sui loro binari stilistici, ma invece la band decide di inserire forti dosi d’elettronica, strutturandosi così in un pop un po’ banalotto, sentito e risentito, masticato e risputato più volte, anche se ci sono degli sprazzi di genialità , lo devo ammettere,   che salvano il disco dal naufragio totale. Ascoltando alcuni pezzi, per quanto riguarda la parte strumentale, penso “Boxing Day” e “Reunion”, con le loro parti di sax davvero calzanti nel contesto, ti accorgi delle potenzialità  dei nostri e il fatto che siano i migliori brani di tutto l’album non fa che aumentare i rimpianti: se tutta l’opera fosse stata come questi due pezzi, beh, l’avrei apprezzata molto di più.

In conclusione, purtroppo, agli Hookworms non riesce la fusione di stili tra l’anima psych e fuzz e quella più elettronica: sono entrati in un contesto musicale che hanno perseguito talmente tante band che ho perso il conto e perdono i loro tratti personali, insomma più che “Microshift” direi Microshit.