Sembra incredibile a dirsi, ma se oggi abbiamo i Queens Of The Stone Age un po’ lo dobbiamo anche ai Looney Tunes. Nel 1997, un anno dopo aver staccato la spina ai Kyuss, Josh Homme sembrava essersi rassegnato al pensiero di non avere più alcun futuro nel mondo della musica. L’esperienza con gli Screaming Trees dell’amico Mark Lanegan si era rivelata meno stimolante del previsto, e l’ipotesi di riprendere gli studi mai davvero iniziati alla University of Wahington di Seattle cominciò lentamente a prendere piede nella testa del chitarrista di Palm Desert.

Poi, come un fulmine a ciel sereno, una visione folgorante: il ricordo di un vecchio cartone animato della Warner Bros. pieno di giganteschi robot barcollanti (o una dosa abbondante di qualche potente allucinogeno?) fu sufficiente a ridare slancio a una creatività  lasciata troppo a lungo a riposo. Il sacro fuoco dello stoner rock tornò ad accarezzargli i capelli rossi fino a insinuarglisi sotto la pelle e spingerlo a prendere la decisione di scrivere e registrare qualche nuova canzone in grado di tradurre in musica i movimenti, la pesantezza e la goffaggine di quei simpatici robottoni. E lo avrebbe fatto quasi totalmente da solo, celandosi dietro il moniker di quel progetto personale avviato poco dopo aver abbandonato gli Screaming Trees: i Queens Of The Stone Age, per l’appunto.

Nessuno con un briciolo di ambizione userebbe mai un nome del genere per la propria band; e infatti, almeno fino a poco prima di entrare in studio per lavorare al debutto del 1998, Josh Homme non aveva mai confidato troppo nel successo della sua creatura. Un paio di EP dati alle stampe (quello a firma Gamma Ray nel 1996 e lo split con i Kyuss l’anno successivo), qualche concerto con il supporto di amici di peso (Matt Cameron dei Soundgarden, Mike Johnson dei Dinosaur Jr., Van Conner degli Screaming Trees e John McBain dei Monster Magnet tra i tanti) e davvero poco altro. Neanche uno straccio di formazione stabile.

Ma quando dalla tua parte hai il desiderio irrefrenabile di dar vita a un nuovo suono ““ il suono di “robot rotti e ubriachi”, come rivelò lo stesso Homme in un’intervista del 2011 al Guardian ““ ogni forma di pigrizia o insicurezza viene spazzata via. Fu l’urgenza di dare sfogo a questa dirompente ispirazione a convincerlo una volta per tutte a mettersi dietro al microfono per la realizzazione di un intero album: e pensare che fino a due giorni prima l’avvio delle registrazioni del disco era ancora impegnatissimo nella ricerca di un cantante!

Per individuare il batterista giusto, invece, non vi fu alcun problema: la scelta ricadde su una vecchia conoscenza come Alfredo Hernández, già  sostituto di Brant Bjork nei Kyuss. A lui il compito di traghettare Josh Homme dai ritmi pachidermici della prima band a quelli decisamente più movimentati ““ nella già  citata intervista al Guardian parlò apertamente di musica “in grado di far ballare le ragazze” – che caratterizzano le undici tracce di questo album di debutto. Che magari non sarà  quella rivoluzione sonora auspicata dal suo autore, ma sicuramente merita una menzione speciale tra le migliori uscite discografiche del periodo a cavallo tra lo scorso e l’attuale millennio.

Tuttavia il genere di “Queens Of The Stone Age”, a distanza di due decenni dalla sua pubblicazione, resta ancora assai difficile da etichettare. Homme trovò un’espressione particolarmente interessante per dargli un nome, ovvero trance robot music for girls. Non male come definizione, perchè racchiude buona parte delle caratteristiche del rock mutante da lui proposto in questa quarantina di minuti.

Impossibile infatti non cadere in una vera e propria trance quando riff acidissimi ed elementari come quelli di “Regular John” (che praticamente viaggia su un solo power chord!), “Walkin’ On The Sidewalks” e “Mexicola” si ripetono all’infinito, intrappolando l’ascoltatore in una dimensione lisergico-metallica dalla quale non si vuole più uscire. E quando la pesantezza inizia a schiacciare i timpani (il meraviglioso ultimo minuto e mezzo di “Walkin’ On The Sidewalks” non ha nulla da invidiare alla “marcia del Caterpillar” di kyussiana memoria) arrivano quei simpatici, goffi robot di cui abbiamo già  parlato a soccorrerci: le armonizzazioni di “You Would Know” e i rumori di sottofondo di quella delirante incursione in territori lounge intitolata “I Was A Teenage Hand Model” potrebbero benissimo uscire fuori da un film fantascientifico girato nel deserto del Mojave.

Su tutto aleggia una primordiale ma già  avvertibile brezza pop che rende brani come “If Only” (un piacevole plagio di “I Wanna Be Your Dog” degli Stooges), “Avon” e “Give The Mule What He Wants” quanto di più radiofonico mai prodotto da un Josh Homme ancora lontanissimo dall’influsso del produttore scala-classifiche Mark Ronson. Con lui sì che le ragazze ballano! Dal loro fortunato incontro l’anno scorso ha preso vita un album che ha saputo unire in maniera abbastanza convincente stoner rock e quelle antiche tentazioni danzerecce che su questo album sono ancora in stato embrionale. Ricordatevi però: “Villains” sarà  anche un buon disco, ma la naturalezza, la spontaneità  e l’energia dei Queens Of The Stone Age degli esordi sono assolutamente un’altra cosa.

Queens Of The Stone Age ““ “Queens Of The Stone Age”
Data di pubblicazione: 6  ottobre 1998
Tracce:  11
Lunghezza: 46:27
Etichetta:  Loosegroove
Produttore: Josh Homme, Joe Barresi

Tracklist:
1. Regular John
2. Avon
3. If Only
4. Walkin’ On The Sidewalks
5. You Would Know
6. How To Handle A Rope
7. Mexicola
8. Hispanic Impressions
9. You Can’t Quit Me Baby
10. Give The Mule What He Wants
11. I Was A Teenage Hand Model