Rieccoli, Damon Albarn, Paul Simonon, Simon Tong e Tony Allen. Riecco The Good, the Bad & the Queen, ben 11 anni dopo  il primo album  del 2007, con questo nuovo lavoro che vede la firma di Tony Visconti come supervisore alla produzione.

Un’ode al Nord Inghilterra, l’ha definito Albarn; particolare e deliberata già  la scelta della copertina con il ventriloquo che cerca di tappare la bocca al pupazzo del visionario ed onirico film horror ingelse degli anni 40 “Dead of Night”; marionetta che ritroviamo in primo piano come protagonista e story teller/Albarn  nei video, uno  per ogni singolo  brano: un richiamo quindi  ad epoche fosche e grigie quali furono quelle dell’Inghilterra dei conflitti bellici della prima metà  del novecento o, attualizzando, come quella dell’attuale situazione politica, ma soprattutto sociale, tratteggiatasi intorno alla Brexit. Non casuale, in tal senso, nemmeno il parlato che apre tutta l’opera: “And especially, from every shore’s end of England– the holy blissful mount I fought to seek. That them had helpened when that they were weak…” omaggio a Geoffrey Chaucer, scrittore e diplomatico del 1300, attento osservatore della società  anglosassone dell’epoca e, per molti, padre della letteratura inglese. E come lui, Albarn  dà  il proprio contributo a dipingere uno spaccato del proprio paese a secoli di distanza.

Similmente all’ultimo album dei Gorillaz, è facile che il lavoro possa apparire come l’ennesimo esercizio di stile di Albarn, che peraltro ha curato ancora una volta personalmente la scrittura dei brani e l’arrangiamento di alcuni strumenti (piano, organo, meletron), essendo comunque un supergruppo oltre che un side project gli altri componenti tentano però di non appiattirsi sul frontman/leader cercando di personalizzare il proprio  apporto: tra archi e fiati,  Tong  si conferma un generale navigato e con piena dimestichezza del mezzo, Simonson sa come creare linee ipnotiche di basso, Allen  quando far sentire il proprio DNA nella batteria e pezzi come “Nineteen Seventeen”  o  “The Great Fire” sono esemplificativi di quanto sopra.

Nonostante le prime due vere tracce “Merrie Land” e “Gun to The Head” abbiano rispettivamente i crismi della filastrocca sconsolata e brumosa e della ballata da carosello vintage, il resto del lavoro scorre con una netta preferenza della componente prosaica e spoken  rispetto a quella, comunque non trascurata, della melodia e del ritornello, a dipingere scenari retrò e decadenti, fatti di istantanee domestiche e bucoliche, di mare sugli scogli e tazze di caffè, di  sentimenti veri e genuini. Meno scanzonato del precedente primo lavoro, più anodino e caliginoso, ma dallo spessore intrinseco assoluto, “Merrie Land” è una vista e un pensiero, quello del cantautore britannico, su come la propria terra si presenta oggi (“Lady Boston” è un riferimento nemmeno troppo velato alla cittadina del Lincolnshire, una delle più favorevoli alla Brexit), su quello che è successo negli anni per arrivarci (la richiamata “Nineteen Seventeen” ricorda i caduti della Prima Guerra Mondiale), su quello che potrebbe diventare (da qui  il mesto congedo di “The Poison Tree”).

Tra momenti di delicatezza (la raffinata “Ribbons”) ed ambientazioni da parco giochi deserto  e spettrale (“The Last Man to Leave”), emerge il  quadro di un paese, l’Inghilterra, che probabilmente così merrie non lo è davvero. E di cui Albarn ne prende atto, senza puntare direttamente il dito, ma con gli occhi dell’osservatore come Chaucer era stato quasi settecento anni prima.

“Merrie Land” è un  lavoro curato, impegnato, melanconico quanto ispirato, lucido, cinico, forse rassegnato, sicuramente appassionato: l’ennesima prova che l’iperproduttività  di Albarn riesce, spesso, a coniugarsi con  la qualità  in termini tali da avere, oltremanica al giorno d’oggi, davvero pochi eguali.