#10) CRIPPLE BASTARDS
La Fine Cresce Da Dentro
[Relapse Records]

Ammetto con un pizzico di vergogna di non essere un grande amante della musica italiana in ogni sua forma e stile. I Cripple Bastards però sono i Cripple Bastards, e ogni loro nuovo album è un piccolo grande evento di fronte al quale è impossibile restare indifferenti. Con “La fine cresce da dentro” celebrano i tre decenni tondi tondi di attività  con un gioiello di grindcore marcio e cattivo che è riuscito a catturarmi sin dal primissimo ascolto.

#9) YOB
Our Raw Heart
[Relapse Records]
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Nelle mani degli YOB il doom metal più lento e pesante assume quasi magicamente forme sempre diverse, a tratti persino imprevedibili. Le sette tracce di “Our Raw Heart”, nate sul letto d’ospedale sul quale Mike Scheidt, cantante e chitarrista del trio statunitense, ha trascorso un periodo di convalescenza, sono un urlo di rabbia e dolore in faccia a un brutto male che lo ha tormentato a lungo. Gli emozionanti sedici minuti e mezzo di “Beauty In Falling Leaves” farebbero piangere anche i sassi.

#8) UNKNOWN MORTAL ORCHESTRA
Sex & Food
[Jagjaguwar]
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Veramente un bel disco questo “Sex & Food” degli Unknown Mortal Orchestra. Ruban Nielson parte dalla psichedelia più acida e lo-fi per dimostrare di essere a suo agio con una quantità  di generi diversi davvero impressionante. Pop, soul, R&B, persino hard rock”…qui ci trovate un po’ di tutto questo e anche qualcosina di più. “Ministry of Alienation”, “American Guilt”, “The Internet of Love (That Way)” ed “Everyone Acts Crazy Nowadays” i brani che preferisco.

#7) SOPHIE
Oil of Every Pearl’s Un-Insides
[MSMSMSM INC/Future Classic]

Qui mi lascio trascinare dall’hype. Su “Oil of Every Pearl’s Un-Insides” di Sophie ho letto decine e decine di recensioni sprizzanti entusiasmo; pur non mettendolo in cima alla mia top 10, devo ammettere anche io di aver apprezzato moltissimo questo stravagante esperimento avant-pop/industrial/elettronico. Bellissima l’apertura con “It’s Okay to Cry”, ma le canzoni che mi hanno colpito maggiormente sono “Ponyboy” e “Faceshopping”. Il futuro passa da qui.

#6) SLEEP
The Sciences
[Third Man Records]
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Un riposo durato quasi due decenni. Poi, lo scorso 20 aprile, l’improvviso risveglio al quale in pochi ancora credevano. Se “The Sciences” degli Sleep sta conquistando i vertici dei listoni di fine anno di mezzo mondo un motivo c’è: nessuno meglio di loro sa muoversi con tanta maestria nelle fumose galassie dello stoner e del doom metal. A mio modestissimo parere “The Botanist” è il miglior brano strumentale del 2018.

#5) NINE INCH NAILS
Bad Witch
[The Null Corporation]
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Con “Bad Witch” Trent Reznor e Atticus Ross hanno chiuso in maniera egregia la trilogia di EP partita nel dicembre 2016 con “Not The Actual Events” e proseguita sette mesi dopo con “Add Violence”. Due prove in studio che, se devo dirla tutta, non mi erano dispiaciute ma non mi avevano neanche particolarmente colpito. Questi sei brani, invece, sono probabilmente quanto di meglio abbiano fatto i Nine Inch Nails dai tempi di “The Fragile”: cupi, profondi, intensi e indecifrabili, come un buon film diretto da David Lynch.

#4) SUPERCHUNK
What a Time to Be Alive
[Merge Records]
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Pop punk e impegno politico vanno a braccetto nell’ultimo album dei Superchunk. Nel centro del mirino, inutile anche dirlo, c’è il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Tra ritornelli deliziosi e chitarre sempre ad alto volume, il lampadatissimo inquilino della Casa Bianca e i “valori” da lui rappresentati vengono criticati con grande intelligenza da Mac McCaughan e compagni. La title track e “Break the Glass” sono semplicemente due canzoni meravigliose.

#3) JEFF ROSENSTOCK
POST-
[Polyvinyl]
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Pubblicato sulle piattaforme di streaming musicale alla mezzanotte del 1 ° gennaio 2018, “POST-” di Jeff Rosenstock presenta molti punti in comune con il lavoro dei Superchunk che ha conquistato la quarta posizione della mia top 10. Alla base della ricetta vi sono sempre pop punk e riflessioni politico-sociali, condite di abbondanti spruzzate di power pop alla Weezer dei vecchi tempi andati. C’è però anche voglia di andare verso qualcosa di più ambizioso, epico, mi azzardo a dire persino “springsteeniano”: con le monumentali “USA” e “Let Them Win”, il desiderio di Rosenstock di arrivare al grande pubblico si fa palese. Se questi sono i risultati, non si può non essere dalla sua parte.

#2) MINISTRY
AmeriKKKant
[Nuclear Blast]
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Questo disco ha fatto schifo praticamente a tutti. Io invece continuo ad ascoltarlo in continuazione, nonostante sia già  passato qualche mese dalla sua uscita. I Ministry hanno fatto di molto meglio, su questo non ci sono dubbi; qui tuttavia ci sono tante belle canzoni decisamente coinvolgenti, dalla maestosa “Twilight Zone” alla rabbiosa “We’re Tired of It”. Con il vecchio Al Jourgensen l’industrial metal è e sarà  sempre in buonissime mani.

#1) FAILURE
In the Future Your Body Will Be the Furthest Thing from Your Mind
[Failure Records]

I Failure sono uno dei miei gruppi preferiti in assoluto. Con ogni probabilità  il loro nuovo album, uscito a puntate tra marzo e novembre, sarebbe riuscito a ritagliarsi un posticino in questa mia classifica anche se avesse fatto schifo. Fortunatamente non è andata così: nonostante il titolo inutilmente lungo e difficile da ricordare, “In the Future Your Body Will Be the Furthest Thing from Your Mind” rappresenta l’ennesima conferma del talento di Ken Andrews e Greg Edwards. I diciannove anni di pausa tra il 1996 e il 2015 hanno decisamente fatto bene al trio losangelino. Laddove però il precedente “The Heart Is a Monster” tendeva un po’ troppo a indugiare sul pesante passato di “Fantastic Planet”, in questo quinto lavoro in studio i Failure abbracciano con convinzione il futuro, andando persino a prendere in prestito gli aspetti più sperimentali e coraggiosi degli Autolux (nei quali, non a caso, ci suona proprio il neo-A Perfect Circle Edwards). C’è il post-grunge, c’è lo space rock, c’è la psichedelia, ci sono le solite influenze beatlesiane ma, soprattutto, ci sono almeno due piccoli capolavori: un'”Apocalypse Blooms” che strizza pesantemente l’occhio allo shoegaze e una “The Pineal Electorate” che per me si aggiudica il titolo di canzone dell’anno. Chapeau.