di Denis (Biancosarti e Satana)

Tra i film ad episodi più interessanti degli anni ’60 è sicuramente da segnalare “Tre passi nel delirio”, produzione italo/francese che, oltre a vantare un cast di fama internazionale (Jane e Peter Fonda, Alain Delon, Brigitte Bardot e Milena Vukotic), si ispira ai racconti di Edgar Allan Poe secondo la visione personale di registi del calibro di Roger Vadim, Louis Malle e Federico Fellini.

L’ ossatura dell’opera è composta da un tris di episodi ambientati in epoche differenti, nello specifico “Metzengerstein”, “William Wilson” e “Toby Dammit”.
Nel primo segmento, una feroce nobildonna, allo scopo di vendicarsi di un torto precedentemente subito, dà  fuoco alla scuderia dei cavalli dell’odiato cugino feudatario.
L’ incendio finirà  con l’uccidere inavvertitamente il nobile, anche se il suo spirito si reincarnerà  in un affascinante e misterioso destriero nero.
Nel successivo episodio, un terribile ufficiale austriaco, di nome William Wilson, confessa ad un prete l’uccisione di un uomo con il suo stesso nome e il suo stesso aspetto, mentre nell’ultima storia, un attore anglofono si reca a Roma per girare un western in cambio di una lussuosa Ferrari; purtroppo per lui, durante la sua permanenza nella capitale, qualcosa di non ben identificato lo porterà  alla follia.

Orrore e fatalità  hanno imperato in ogni tempo. Perchè dunque segnare una data alle storie che devo raccontarvi?“: con questa frase di Edgar Allan Poe si apre “Tre passi nel delirio”, un vero e proprio trittico formato da racconti che paiono costantemente trovarsi fuori dalla logica spazio/temporale.
In tutte le storie raccontate, i registi cercano attraverso il proprio tocco autoriale di fondere un preciso comun denominatore (l’inconscio e relative attitudini caratteriali dei personaggi principali) in una costante ricerca del mistero e del fantastico, peculiarità  che sorreggono per quasi due ore l’intero quadro narrativo e filmico.
I differenti modus operandi dei cineasti- stilisticamente molto diversi- arricchiscono di certo il lavoro, infondendo una strana e quasi magica dissonanza, senz’altro molto indicata, che si alimenta proprio di queste divergenze stilistiche.
In “Metzengerstein”, l’affresco filmico è quasi di natura “rinascimentale/decadente”, in virtù degli incredibili paesaggi, ricchi di strutture diroccate, nei quali si muovono i personaggi.
Utilizzando il talento dei Fonda, il bravo Roger Vadim costruisce un episodio di spettrale malinconia nella quale agiscono sia i meravigliosi campi lunghi da lui utilizzati, sia un contributo sonoro dove dolcezza e lugubri visioni ricreano un’aurea felicemente disarmonica.
Di altra attitudine è il successivo mediometraggio di Louis Malle, più incentrato sulla psicologia e sul classicissimo “tema del doppio”.
A differenza del precedente, la sceneggiatura e il quadro complessivo si fanno qui maggiormente articolati, in virtù anche del montaggio (spesso alternato e intriso di numerosi flashback), dell’uso frequente della camera a mano e, ultimo ma non ultimo, uno sviluppo quasi circolare.
Alain Delon riesce incredibilmente a calarsi bene nella parte dell’ufficiale Wilson – un individuo corroso dall’ego e dalla sua stessa coscienza, la quale tenterà  in tutti i modi di fermarlo -, così come notevole è anche la Bardot, relegata ad un breve ma intenso ruolo.
La conclusione è affidata a Fellini ed il suo “Tobby Dammit”, oggettivamente la parte più straniante di tutta la pellicola.
Differentemente da quanto visto, il maestro romagnolo cambia quasi radicalmente il tono del lavoro, esasperandolo con quelle che sono le sue caratteristiche autoriali; grazie anche allo score musicale jazz di Nino Rota, l’atmosfera diventa infatti tipicamente felliniana, con conseguente utilizzo di colori e cromatismi spesso irreali che, nel loro insieme, trasportano il fruitore in un microcosmo grottesco, quasi circense, dove le individualità  coinvolte, con aria trasognata e sopra le righe, tratteggiano quella che è la tipica descrizione borghese tanto amata dal regista.
Tra situazioni oniriche e di sfuggente fantasia, il maestro trova anche modo di omaggiare Mario Bava, riprendendo la famosa sequenza della bambina contenuta in “Operazione paura”.
In sintesi, “Tre passi nel delirio” è un’operazione di indubbio fascino e qualità  realizzativa, forse non sempre amalgamata coerentemente tra le sue componenti ma, nonostante questo, di grandissima valenza artistica.