E così è arrivata l’ora della maturità  anche per Avril Lavigne. L’ex reginetta del pop punk interrompe un silenzio durato cinque anni abbondanti con “Head Above Water”, un ritorno sulle scene che lei stessa ha definito “una giostra di emozioni”. La sfortuna ci ha infatti messo lo zampino e ha trasformato il successore dello scialbo omonimo targato 2013 in una sofferta testimonianza della dura battaglia che la cantante canadese sta tuttora affrontando contro la borreliosi.

Nei momenti più difficili, la malattia era arrivata a debilitarla a tal punto da farle credere di essere vicina alla fine. Il desiderio di non lasciarsi sopraffare dalla disperazione e cercare una valvola di sfogo l’ha quindi spinta a sedersi al pianoforte, dove sono nate alcune tra le canzoni più introspettive e intime non solo del disco, ma di tutta la sua carriera.

Tra queste spuntano “Warrior” e la title track, due belle power ballad senza troppe sorprese ma assolutamente godibili. Strofe carezzevoli che non sfigurerebbero in una hit di Cèline Dion aprono la strada a ritornelli epici in cui a farla da padrone è proprio lui, sua maestà  il rullante ottantone. L’ effetto gated reverb sulla batteria sta finalmente tornando di moda nella musica pop che conta; una soddisfazione non da poco per colui che di quel suono enorme fu il padre, l’unico e inimitabile Phil Collins. Ascoltate i robusti fill su “I Fell In Love With The Devil”: li sentite anche voi i richiami a “In The Air Tonight”, vero? Bene, perchè sono l’unica cosa memorabile della traccia.

Purtroppo in “Head Above Water” i riempitivi si sprecano: l’esercito di compositori e produttori chiamati a rimettere in carreggiata Avril Lavigne fallisce nell’impresa di confezionare un album in grado di mettere “la testa sopra l’acqua” dello sconfinato oceano mainstream. Aggiungeteci la decisione di chiudere definitivamente i conti con il passato leggermente più rock e spensierato di “Let Go”, “Under My Skin” e “The Best Damn Thing” e il danno è fatto.

Restano una manciata di ballatone ripetitive, semi-ballate sovraprodotte che riportano alla mente Carly Rae Jepsen (“Love Me Insane”) e i Bastille (“Souvenir”) e qualche raro momento di leggerezza sul quale aleggia un sentore di anacronismo che mi fa pensare di essere al cospetto di scarti provenienti da epoche molto, molto remote (spizzichi di Bangles e il riff di “Edge Of Seventeen” di Stevie Nicks in “Dumb Blonde”, reminiscenze novantiane in “Bigger Wow”). Tra tanti filler risplendono però un paio di piccoli gioielli pop che da soli valgono l’intera opera: “Tell Me It’s Over” e “Crush”, due gustosi omaggi al soul anni Sessanta in cui Avril Lavigne dimostra finalmente di essere diventata un’interprete di razza.

Photo: Gen Lu, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons