La storia di Sammy Hagar è la storia di un uomo che ce l’ha fatta. Un uomo che è riuscito a trasformare la sua più grande passione in un mestiere. State pensando alla musica, vero? Beh, vi sbagliate di grosso: la più grande passione del buon Sammy è la tequila. Dopo decenni trascorsi a produrre hard rock con i Montrose, i Van Halen e in solitaria, il nostro è passato alla distillazione dell’agave blu.

Un trionfo: una decina di anni fa è riuscito a vendere la sua azienda, la pluripremiata Tequila Cabo Wabo, niente po’ po’ di meno che al Gruppo Campari. E si è intascato anche un bel gruzzoletto, per giunta: ottanta milioni di euro. Abbastanza per poter campare di rendita, non credete? E invece no, perchè questo instancabile giovanotto sulla settantina oggi torna al suo primo amore ““ sì, adesso stiamo parlando di musica ““ con un album intitolato “Space Between”,  registrato insieme a una band che si fa chiamare The Circle.

Un gruppo di esordienti? Manco per niente. Alla chitarra, un collaboratore di lunga data: Vic Johnson. Al basso, un altro enorme appassionato di bevande alcoliche: Michael Anthony, ex collega nei Van Halen. Alla batteria, un formidabile figlio di papà : Jason Bonham, quasi sempre presente al fianco dei Led Zeppelin nelle loro fugacissime reunion post 1980.

Con un quartetto del genere, è impossibile fallire. E infatti “Space Between” è un disco sorprendentemente buono. Fresco, vibrante e privo di fronzoli; scritto, prodotto e arrangiato in maniera splendida. Senza inventarsi davvero nulla di nuovo, Sammy Hagar & The Circle ci portano a fare un giro lungo appena trentacinque minuti nella migliore tradizione hard rock statunitense. è tutto lavoro di chitarra (elettrica naturalmente, ma anche tanta acustica), basso e batteria: non c’è bisogno di affidarsi a particolari effetti speciali per mettere in risalto le qualità  di un cantante che, nonostante l’età , mantiene ancora in ottime condizioni il suo riconoscibilissimo timbro blues.

Un’ugola graffiante e versatile come non mai per scartavetrare i timpani nei passaggi più sostenuti (“Free Man”, “Trust Fund Baby”) e sfiorare le corde dell’anima quando i toni si abbassano e si avvicinano – in maniera assai discreta – al soul, al country e al vecchio rhythm and blues (da non perdere “Can’t Hang”, “No Worries” e l’intensissima “Wide Open Space”). Come si dice a Bolzano, è hard rock de core e de panza: la colonna sonora ideale per un lungo, piacevole viaggio in auto. O per sbronzarsi con una bella bottiglia di Cabo Wabo.