Personalmente gli album in cui ci fosse una contaminazione di generi mi hanno sempre incuriosito e ho sempre apprezzato, quando artisti pop e rock fondevano la loro arte con artisti diversi da loro o con culture musicali distanti, e direi che nella storia della musica siamo pieni di casi riuscitissimi , album dove la fusione tra generi era in grado di costruire nuovi percorsi e occasionali gemme.

Quando ho cominciato a capire che il nuovo album di Iggy Pop sarebbe stato un album jazz, non nego di essermi meravigliato e stupito, non che Highlander Iggy non mi avesse negli anni già  sorpreso, “Avenue B” e “Après” per fare degli esempi, ma sono sincero il rocker di ferro, che a oltre settanta anni suonati ancora infuoca palco e spettatori,   non ce lo vedevo proprio in un album ad alto contenuto jazz.

A dirla tutta qui non ci troviamo di fronte a un opera notevole come “Black Star”, dove la contaminazione jazz è elegantemente determinata e diretta da sua maestà  David Bowie, in questo caso l’apporto di Iggy Pop si limita all’ interpretazione delle canzoni che contrassegna con la sua voce profonda, mentre tutto il lavoro compositivo viene lasciato al trombettista Leron Thomas  e alla chitarrista Sarah Lipstate.

Risultato finale ? Un lavoro decisamente breve che mi risulta difficile considerare come un album di Iggy Pop, un album che, mi dispiace dirlo non mi ha convinto, e che ho apprezzato principalmente per la tromba di Leron Thomas   che ci dà  momenti veramente piacevoli.

Finisco per considerarlo un episodio piuttosto che un cambiamento, una mutazione o addirittura il nuovo futuro di un artista, come mi è capitato di leggere in giro, cerco di scrollarmi di dosso la figura mitica dell’iguana e tutta la storia che si porta dietro e giudicarlo per quello che è, un episodio, forse ripetibile, che si esaurisce in pochi brani e che non ha una forza e una sincerità  capace di affascinare e intrigare .

Saltata la title track “Free”, abbiamo   “Loves Missing” che  è un brano anomalo rispetto al resto dell’album e che per un secondo ho sperato fosse un vecchio brano dimenticato di Bowie, mentre da “Sonali” in poi è la chiave jazz ad aprire le serrature.

“James Bond” ha un andamento pop abbastanza ripetitivo e quando inizia a subentrare un po’ di noia ci pensa la tromba di Leron Thomas   a ridarci la sveglia e a farci riprendere, mentre “Dirty Sanchez  ” risulta più affascinante regalandoci atmosfere da frontiera messicana, mentre per “Glow In The Dark”   e “Page” sono i musicisti a brillare.

La parte finale dell’album è ampiamente recitata e ci accompagna in maniera inoffensiva fino all’ultima traccia dell’album,   merita comunque di essere ricordata almeno “We Are The People ” su un bel testo di Lou Reed  , sembra conservato da  Laurie Anderson e donato ad Iggy per l’occasione.

Devo essere onesto, la versione jazz di Iggy Pop non mi ha pienamente convinto, per quanto l’album cerchi di volare alto e avere una sua valenza artistica, e sotto certi punti di vista sia inattaccabile soprattutto grazie a Leron Thomas che è il vero protagonista, è  tutto sommato un episodio della sua carriera poco significativo  che credo e spero resterà  un episodio isolato.