Il disco di mezzo, o quello che in una lunga carriera di un artista normale capita di trovare quasi sempre. E per lo più “Coney Island Baby” potrebbe effettivamente essere considerato il classico disco di transizione, situato tra gli sforzi e la maestosità  di scrittura e di concept di “Transformer” e “Berlin”, dopo la sfida di “Metal   Machine Music” e prima del rinnovamento anni 80 che culminerà  nell’indimenticato “New York”.

Avrebbe anche la struttura di un album di passaggio, sia per la trascurabilità  di alcune composizioni (“Crazy Feeling”, “Ooohhh baby” ), altre che sfuggono di mano (“She’s my best friend”), in generale per un amalgama fra le canzoni che non si sente e non appartiene al Lou Reed finora conosciuto.

Avrebbe. Ma “Coney Island Baby” è la dimostrazione di quanto immensa sia la nostra dipendenza  dal personaggio Lou Reed, della sottomissione a dei clichè con i quali siamo abituati a giudicare opere di questo tipo, quando neanche lontanamante Lou avrebbe cercato di avere il minimo interesse per questa considerazione dal suo pubblico, fregandosene e permettendosi di impostare tutto un intero album semplicemente sui propri rapporti amorosi del periodo, con una supremazia e piena consapevolezza che tuttora ci atterriscono.

Ancora una volta qui Lou ci guarda dall’alto del suo piedistallo, controverso, doppio, intossicato, per farci sapere dominandoci, di sentirsi “un dono per tutte le donne del mondo” (“Gift”) o per avere quel “pazzo sentimento” che ci attanaglia e ci accomuna. Sembrerebbe effettivamente quasi ammirevole e eccitante  l’idea di pensare ad un Reed così vicino a noi, apparentemente lontano anni luce dalla cerebralità  dei Velvet e dal furore dei primi album solisti.

Ma come al solito bastano quelle due, tre canzoni per rimettere la distanza, quella fra un mentore e i propri discepoli, fra la vita fatta ad arte e la vita semplicemente consumata, per ribadire una dimensione inarrivata di vero intereprete della cruda realtà  nascosta, quella che i veri artisti ci svelano, fatta dall’ebbrezza della violenza di strada nello splendido blues nervoso di “Kick” o la poetica “Coney Island Baby”, una delle migliori ballad del nostro, una straordinaria  parabola induttiva sull’amore  che ci protegge, la “gloria dell’amore”, per cui forse (non) intuiamo che valga la pena di vivere.

Un disco alla fine quasi perfidamente ingannevole, che cela i suoi segreti anche nella sua dimensione di minimalismo musicale, che a dire il vero da qui in avanti sino a “New York” caratterizzerà  il seguito della carriera solista, dove Lou si concede al piacere delle cose apparentemente semplici, anche divertendosi, in piena libertà  e disinvoltura, come fotogenico e disinvolto è nella copertina, quasi fashion, volendo.

Pubblicazione: 10 gennaio 1976
Durata: 35:15
Dischi: 1
Tracce: 8
Genere: Soft rock, Album-oriented rock
Etichetta: RCA Records
Produttore: Lou Reed, Godfrey Diamond
Registrazione: 18-28 ottobre 1975

Crazy Feeling – 2:56
Charley’s Girl – 2:36
She’s My Best Friend – 6:00
Kicks – 6:06
A Gift – 3:47
Ooohhh Baby – 3:45
Nobody’s Business – 3:41
Coney Island Baby – 6:36