Nostalgie smorzate, melodie profonde, ombre minacciose, una voce ipnotica che sgretola l’oscurità  e ci mostra la realtà  per quello che è, cruda e seducente. Tutto ciò viene fatto con la giusta dose d’ironia, con la giusta dose di malinconia, con la giusta dose di disagio e di preoccupazione, ma senza mai perdere di vista una fresca, pulita e lucente onestà  di fondo.

Le canzoni, intanto, si liberano di tutto ciò che è superficiale ed opprimente, diventando più coincise e minimali, apparentemente avvolte in un velo di tristezza, ma distanti anni luce dalla ricerca di vana auto-commiserazione o inutile auto-assoluzione, anzi desiderose di far emergere e trasmettere agli ascoltatori la luce preziosa che esse sanno di celare dentro di sè. Ma non è una luce scontata, non è una luce dovuta a chiunque, non è una luce a buon mercato; di conseguenza, essa richiede uno slancio emotivo, una comunione di idee e di sentimenti, una indispensabile e faticosa sintonia tra le parti, nonchè la volontà  di trovare quell’equilibrio tagliente nel quale il dolore o l’amarezza possono trasformarsi in un sottile sorriso.

Non ci sono fughe, ma sogni sì. Sogni che sono sonorità  vissute, come se si trattasse di un fuoco che continua a vivere, nonostante il tempo trascorso, sotto la cenere delle epoche e delle mode. Sembra essere così fragile, così debole, così vulnerabile, ma, invece, la sua potenza espressiva, la sua micidiale forza comunicativa, la bellezza dei suoi echi e dei suoi riverberi, trascende le parole, trascende gli schemi critici, trascende i dischi nei quali tutto ciò era stato inciso ed arriva ad avvolgere “I’m Not Sorry, I Was Just Being Me”, come se si trattasse di una tempesta elettrica carica di trame psych-blues, di morbide divagazioni indie-folk, di luccicanti gemme di matrice trip-hop.

L’abilità  dei King Hannah è dare continuità  alla storia, renderla fluida e soprattutto rinnovarla alla luce di quelle che sono le loro personali narrazioni musicali ed esistenziali: un pezzo di luna, le strade notturne di Liverpool, un’auto che sfreccia lungo una striscia d’asfalto in pieno deserto, un vecchio affascinante cinema, un tempo nel quale le bambine potevano giocare pacificamente all’aria aperta, prima che queste mortali nubi di guerra e malattia si addensassero all’orizzonte.

Credit Foto: Katie Silvester