È ancora possibile che una band britannica che conquista le vette delle classifiche nazionali rimanga sostanzialmente priva di visibilità al di fuori del territorio dell’isola. Uno pensa che con Internet e tutto il passaparola che c’è, un evento come questo non possa più succedere, e invece ecco qui l’esempio dei Lathums, da Wigan. Nel settembre del 2021, infatti, è uscito il loro primo album, che è arrivato al n. 1 in Patria, ma di cui si è parlato pochissimo al di fuori (quella presente su queste pagine è una delle sole tre recensioni online italiane, ad esempio).

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Ora, invece, sembra che ci sia molta più attenzione per questo quartetto, forse anche per via del set di spalla ai Killers dell’estate scorsa a Milano. Meglio tardi che mai, comunque, anche perché questo disco, lo dico subito, è davvero splendido ed emozionante, soprattutto per chi amava e ancora ama il britpop.

Un’altra cosa che ci tengo a dire il prima possibile è che questo disco non va bollato come nostalgico, e non solo perché i membri della band non erano probabilmente ancora nati all’epoca della cosiddetta Cool Britannia. Dico probabilmente perché non si trovano informazioni precise sulle loro date di nascita, ma visto che si sono incontrati al The Music Project College nel 2018, è facile immaginare che siano venuti al mondo meno di vent’anni prima.

Al di là dell’aspetto anagrafico, comunque, è il contenuto stesso del disco a tenerlo lontano sia dal rischio di passatismo, che da un’eventuale accusa di essere stato realizzato con una scelta fatta a tavolino, ovvero quella di solleticare il palato dei britpoppers, già stimolato più che mai dai moltissimi ritorni all’attività di band dell’epoca, e quindi con i ricettori più che mai attenti anche nei confronti di musica nuova.

La sensazione netta, ascoltando queste canzoni, è quella di una band che scrive canzoni e le suona con tutte le qualità amate dagli appassionati di musica, ovvero ispirazione, gusto, affiatamento e cuore, e che non ci sia nulla di studiato, ma che, semplicemente, queste canzoni sono così perché la band è così, e lo sarebbe stata oggi come allora o come se si fosse formata 10 o 15 anni fa quando il britpop era fuori da tutti i radar.

Certo, l’ascolto invita gli amanti di quel periodo magico a un name dropping piuttosto pesante: lungo lo scorrere del disco, infatti, si percepiscono la magniloquenza degli Shed Seven, la muscolarità dei Northern Uproar, l’ariosità dei James, la sinuosità melodica degli Strangelove, la naiveté dei Candyskins, la capacità di arrivare dritti al punto dei Cast, i toni umbratili di Bluetones e Gene, il nervosismo catartico dei Marion, e probabilmente si potrebbe andare ancora avanti. Inoltre, in più di un momento, vengono alla mente anche alcuni progetti del decennio successivo più vicini a queste coordinate, come Mull Historical Society, Ordinary Boys e Mumm-Ra.

Quando i nomi in ballo diventano così tanti, però, di solito è giusto ammettere che si tratti di mere suggestioni e che, in realtà, la band in questione è riuscita a ritagliarsi un proprio spazio e ad avere una propria riconoscibilità. I Lathums non fanno eccezione, e questo disco merita di essere semplicemente assaporato e vissuto senza troppe elucubrazioni mentali, perché quando c’è un livello così alto in termini di qualità melodica, sensibilità interpretativa, espressività vocale e funzionalità di ogni singolo elemento per la riuscita dell’opera, non si può che godere e non si deve fare nient’altro, pena l’imperdonabile perdita di una sensazione che da tempo non era così edonistica in ambito di ascolti musicali.

Cos’è infatti, se non puro piacere, ciò che ci restituisce l’ascolto di un’iniziale “Struggle” dalla struttura impeccabile e in grado di avvolgerci e farci battere il cuore? Cos’altro proviamo quando ci buttiamo nella girandola di ritmica martellante, rasoiate di chitarra decise e linee vocali esuberanti che caratterizza la successiva “Say My Name”? Come altro ci sentiamo quando, con “I Know” e “Lucky Bean” i toni si fanno più leggeri e spensierati, ma poi, saggiamente, “Facets” torna ad aumentare i giri e incupisce i colori? E il romanticismo inerme di “Rise And Fall”, il sentirci cantare con quella dolcezza “been given things I don’t deserve, but I know that I’ll prove my worth“, può forse lasciarci indifferenti?

Piacere, godimento, ebbrezza: queste sono le sensazioni date da questo magnifico disco, e non c’entra il rifarsi a questo o a quel periodo musicale, perché i punti di forza specificati sono universali e ogni appassionato di musica dovrebbe apprezzarli. Mi fermo qui con la descrizione delle singole canzoni, perché le recensioni elencatorie non sono le mie preferite, ma sappiate che anche per la seconda metà valgono le stesse considerazioni. Parafrasando il titolo, questo disco è in grado di passare dal niente direttamente al moltissimo, nel senso che moltissimi saranno gli ascolti che si meriterà, e lo stesso varrà per le cantate.

Sperando che, stavolta, arrivi un’esposizione mediatica tale per cui la band possa intraprendere un tour europeo da headliner e, chissà, suonare da protagonista anche nella sempre più bistrattata Italia, e a quel punto sarà entusiasmante ritrovarsi abbracciati con gli amici a impazzire senza freni sotto al palco. Questo disco fa venire in mente scenari così, momenti di gioia irrefrenabile legata alla musica, che oggigiorno è sempre più rara anche perché i dischi capaci di scatenarla sono sempre meno. Per fortuna è arrivato questo.