Tutte le possibilità di dilatazione spaziale della trance di James Holden sono la pasta di cui è fatto questa nuova prova del quarantenne produttore e dj britannico, alle prese a suo dire con una personale colonna sonora pronta a rinverdire i fasti di una ideale scena rave alla quale avrebbe voluto partecipare ma che forse la tenera età del tempo o altri impedimenti non hanno consentito di vivere appieno.
Non ci vuole molto per capire che la raccolta di canzoni di questa nuova produzione rappresenta un unicum sostanzialmente inscindibile, facente parte della medesima esperienza sensoriale e percettiva che è l’anima di “Imagine this…”, proprio perchè l’immaginazione è il perno attraverso il quale apprezzare l’evolversi di questi suoni, lo strumento che permette di modificare la modalità dell’ascolto: arriva un momento in cui ad un certo punto si smette di seguire i brani e ci si lascia andare, inseguendo solo il flusso ondoso delle vibrazioni trasmesse, accogliendo ad occhi chiusi il percorso musicale del non più giovane Holden. E’ un grande dono, è qualcosa di molto simile alla psichedelia lisergica degli anni 60, una specie di sintesi aggiornata fra lo sciamanesimo Hawkwind e le sperimentazioni digitali del secolo scorso di gente come gli Orb, con la sola differenza che ad Holden tutto questo sembra riuscire in modo molto semplice, fluido e naturale come se non vi fosse resistenza e l’accumulo ed integrazione di queste derive psych fossero parti naturalmente insite in un senso di ispirazione più ampio.
Si va infatti da esperienze di espansioni di synth come l’iniziale “You are in a clearing” a sonorità che si intrecciano con i beats di “Containes Moltitudes”, la più vicina all’idea di straniamento rave, con i suoi loop allucinati, molto epopea club culture anni 90 ai limiti dell’house, alla cinematica “Common land” con quel sax introspettivo che starebbe bene dentro la colonna sonora di qualche scena losangelina girata da Michael Mann, fino alle cavalcate prog di episodi scintillanti come “Continuos Revolution” , molto primo Lindstrom.
Si passa da titoli come “continue rivoluzioni” a “infinite dissolvenze” come a dare evidenza leggibile al flusso denso e spesso travolgente di un album che si desiderava da tempo, che rimane sempre in equilibrio portante su un livello alto sia di eterogeneneità che di spessore della trance, molto distante dal dejà vu e dal manierismo tipico di operazioni come queste, capace di interpretare la trasformazione emotiva dell’ascoltatore, il bisogno di abbandono, il desiderio dell’immaginazione sensoriale.
Certo, sono suoni liquidi, di genere, che hanno abbandonato l’accostamento alla struttura da band del precedente “The Animal Spirit”, quindi bisognerebbe essere scafati e partire da certe frequentazioni danceflooor e dall’approccio elettronico alla materia diciamo dalla fine degli ’80 in poi, oltre all’idea che nell’ambito di questa musica è la totalità del prodotto che fa la sostanza, non si tratta di concept ma ci si è vicini: musica come universo parallelo, astrazione ed espressività, stato mentale piuttosto che singoli momenti, uno spasso!