The Last Drop Of Blood cinque anni dopo e poco sembra essere cambiato per la band veronese che torna a collaborare con Shawn Lee e arruola Andrea Chimenti per un nuovo viaggio tra le mille sfumature di un rock orgogliosamente ritmato, che non scende a compromessi.

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Credit: Press

A essere diverso è semmai il mondo che li circonda sempre più carente – per non dire orfano – di band che riescano a mettere insieme l’anima sanguinante del blues e quella sanguigna del rock n roll. “Till I’m buried” scalda l’atmosfera con una diabolica armonica, i lampi dei sintetizzatori, la voce di Carlo Cappiotti che sembra voler ricordare quella del compianto Chris Cornell, i riff granitici e una coda dal piglio western che mantiene alta la tensione.

“Love Funeral” e “Postcards from a ghost town” rivelano il talento melodico dei The Last Drop Of Blood: una ballata riflessiva punteggiata da assoli di gran classe la prima, più grintosa la seconda dal ritmo avvolgente e speziato. “Feelin’ good” tiene fede al titolo che porta, un brano tagliente e graffiante con echi degli Alice In Chains nel tono della batteria, nelle armonie vocali sovrapposte. Atmosfera dolente è invece quella di “Thirty holes” che torna al rock blues presente nella grana delle chitarre sempre più espressive e veraci, la voce di Cappiotti che dà il meglio di sé nel finale.

L’America evocata dalla band veronese è ancora il paese in cui vendere l’anima per una chitarra non è reato, un paese che forse esiste ormai solo nelle canzoni, nei libri, nei ricordi, in “Don’t Let Your Head Keep Telling Lies”. Meno male che c’è però, soprattutto quando partono “Blood Everywhere”, ipnotico e misterioso tema cardine del disco o una “What if” che ha il DNA della murder ballad perfetta.

Francesco Cappiotti, Carlo Cappiotti, Chris Meggiolaro, Claudia or Die, Michele Martinelli, Simone Marchioretti e Andrea Ferigo scrivono la seconda stagione della saga The Last Drop Of Blood e lo fanno con maestria e talento, furia e un pizzico di giusta ambizione, in un on the road ben equilibrato, riflessivo e sfrenato, che ribadisce – con ovvio sollievo – che il rock è vivo e lotta insieme a noi.