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SOLD OUT. Il concerto è andato sold out qualche giorno fa, è una cosa buona e giusta, e anche se fuori piove e fa freddo, anche se i Magazzini sono lontani da casa, anche se è lunedì sera e c’ho una certa, vado pensando a chi ha comprato il biglietto mesi e mesi fa e a chi ha comprato l’ultimo biglietto (e non lo saprà mai) e a chi è andato tutto bello pimpante per comprarsi quelle due ore di John Lyndon & C. e invece SOLD OUT.

I PIL hanno bisogno di una presentazione? Io non credo, ma visto che già son qui, facciamo questo breve intro a un pezzo di storia della musica, che quando il nostro John nel 1978 – dopo essersene andato dai Sex Pistols – ebbe l’idea “massì, dai, facciamo ancora qualcosina”. E fu così che nacquero i Public Image Limited.

Da sempre mi lamento che a Milano i concerti iniziano troppo tardi, e la mia nemesi mi presenta il conto proprio oggi: io arrivo alle 21.10 e il concerto è già iniziato, da poco, ma è iniziato (non c’è stato nessun gruppo spalla, solo – mi riferiscono – il DJ set di Ringo, storica voce di Virgin Radio).

Entro e i Magazzini sono pienissimi (eccerto, è sold out, che ti aspettavi?) e ancora una volta constato che questa location soffre più di altre la capienza massima, a livello di vivibilità e di visibilità.

Faccio appena in tempo a mettermi dietro il mixer e parte “This is not a love song”. E qui, parliamone. Sono fermamente convinta che ognuno abbia il diritto ad avere una canzone del cuore per ogni gruppo che segue. E poi ce ne sono 4 o 5 che trascendono e che diventano LE tue canzoni. E “this is not a love song” è una di queste, e sentirla dal vivo è un’emozione pazzesca, che va oltre il caldo dei magazzini e le persone altissime che sono tutte qui, esattamente davanti a me, per cui io John mica lo vedo. Lo sento, ma vederlo no. 

Mi sposto? Mi sposto. Però al più vedo il pillolone PIL (che since 1978 è il loro logo) e se  proprio mi dice culo intravedo John, di nero vestito e – diciamocelo – il doppio di come lo ricordavo. Meno male che lo sento.  Sul palco intanto sono coesi, “The room I am in” gli esce particolarmente bene, le linee del basso arrivano nella pancia, e giù dritti senza interruzione.

John manda affanculo le persone che hanno i telefoni in mano

Basta scrivere, questa è la vita vera, e andate affanculo, vivete e non mandate messaggi.

John, tu hai ragione, ma io come detto sopra c’ho una certa, se non mi segno le cose poi me le dimentico, e sto report poi non mi esce.

Posso avere una dispensa? Non sto scrivendo a nessuno, sto scrivendo – al più – di te, facendoti anche dei gran complimenti perché io a 67 ci vorrei arrivare così, di nero vestita e andando ai concerti.

Parte “Memories”, ipnotica e cupa, a cui segue una “Car Chase” pressoché perfetta.

John manda affanculo anche chi gli punta le “stupid cameras” in faccia, però John, stai calmo, da dove sono io al più fotografo 182 persone sopra il metro e ottanta, per cui a sto giro il tuo fuck off me lo schivo. Non ci saranno foto di questo live, sono una persona vera a un concerto vero e fuck off the stupid cameras (soprattutto quelle saldamente in mano a tutti quelli che sono davanti a te a ogni concerto a cui vai). 

Gli ultimi due pezzi prima degli encore sono “Warrior” e “Schoom”, dove – dalle mie retrovie- ho potuto osservare le tre tipologie di spettatori dei PIL (inutile girarci intorno: la maggior parte qui nel 1978 era altro che viva): gli immobili, i ciondolatori di testa e quelli che hanno ballato e ora hanno bisogno di una doccia o quantomeno di un tentativo (lato mio fallito) di sosta al bar, che tanto “torniamo tra pochi minuti” . Del resto 37 date in Europa, più vicini ai 70 che ai 60: avranno pur diritto a 5 minuti prima degli encore?

Ed eccoli, gli encore: Public Image, una cover (“Open Up”) e ovviamente “Rise”, dove anche i ciondolatori di testa e quasi tutti gli immobili ballavano e cantavano, con il nostro John che alla fine manda baci, sventola il suo librone nero e chiude il pugno. 67 anni e non sentirli.