Credit: Riccardo Cavrioli

Alla voce “celebrare” il dizionario Treccani riporta questa spiegazione

Lodare, esaltare, glorificare, festeggiare solennemente, compiere atti che abbiano un significato solenne.

Ecco, tutto questo si sposa alla perfezione con quello a cui ho assistito il 17 novembre a Londra, nella splendida cornice dell’ O2 Shepherd’s Bush Empire. Gli Embrace hanno riproposto per intero il loro primo album, festeggiandone i 25 anni e mai come in questo caso la parola “celebrazione“, con tutte le sue derivazioni citate sopra, ha trovato il suo degno compimento.

I fratelli McNamara chiamano a raccolta i loro fan e Londra risponde presente: il locale è sold out, gremito in ogni ordine di posto. L’età media è alta, i presenti sono proprio quelli che nel 1998 si erano fatti incantare da quel “The Good Will Out” che segnava l’esordio di Danny e compagni e questa sera il loro intento è uno solo, cantare a squarciagola quelle canzoni e lasciarsi trasportare nel passato. Attenzione però, perché la serata non può e non deve semplicemente essere catalogata come “semplice ricordo di un album”. No, sarebbe troppo riduttivo. Quello che gli Embrace hanno messo in piedi è stata davvero un’apoteosi vera e propria, un compleanno non da festeggiare in fretta e furia ma con tutta l’enfasi e le emozioni che loro (e noi presenti) potevano mettere in campo. Così è stato.

“The Good Will Out” è sempre stato un disco che ho considerato “arrivare dal cuore”. Gli Embrace in quei brani così intensi e coinvolgenti, che qualcuno, a suo tempo, si era affrettato a catalogare frettolosamente come un povero incrocio senza mordente di Verve e Oasis, ci avevano realmente messo cuore e passione. Raramente ho trovato dischi così empatici fin dal primissimo ascolto. Se serata magnifica doveva essere, bisognava che i fratelli McNamara e soci rimettessero sul piatto cuore e occhi lucidi, perché solo così le note di quel disco avrebbero potuto pulsare ancora in modo struggente e totalizzante come allora nella nostra testa e nel nostro cuore. E’ bastato l’ingresso di Danny (capello lungo e barba accennata) sul palco, con quel sorriso, quelle braccia alzate, quello sguardo tra il commosso e l’entusiasta per capire che tutto era già orientato a quello che speravo.

Il cantante degli Embrace è stata cartina tornasole di quello che stava accadendo tra il pubblico. Uno specchio capace di assorbire vibrazioni entusiasmanti per restituirle triplicate ai presenti. Ho immaginato il suo cuore battere forte come il nostro mentre riprendeva in mano quelle canzoni, ho provato il suo sincero stupore e l’inevitabile pelle d’oca mentre i 2000 presenti non sbagliavano nemmeno una parola dei testi di ogni canzone contenuta su quel disco: 2000 voci che spesso riuscivano perfino a coprire la sua. La mano sul cuore ad ogni canzone, i sorrisi verso i suoi compagni di palco, l’affiatamento splendido con il fratello Richard, il costante invito ai presenti ad alzare ancora di più il coinvolgimento già alle stelle, creado una connessione totale con la band e gli occhi, gli occhi che ci parlavano e ci dicevano che stasera lui era li per vivere in pieno quel momento, affinchè ogni presente uscisse dal locale consapevole di aver assistito a qualcosa di memorabile. Solo così questa serata sarebbe potuta funzionare, solo così un simile disco avrebbe potuto essere celebrato e così è stato e dobbiamo dire grazie agli Embrace per aver prefettamente capito che non sarebbe bastato un “semplice” concerto, no, ci voleva qualcosa in più.

Il lettore più avido di particolari però giustamente mi potrebbe rimproverare ed è quindi giusto che soddisfi anche lui. Il primo album è stato ovviamente riproposto dall’inizio alla fine e il suono ottimale e una band rodatissima ci ha fatto assaporare ogni melodia al meglio. Le ballate sono diventate struggenti (“My Weakness” è stata qualcosa di incredibile, “Fireworks” da lacrimoni), i pezzi più esplosivi (“Last Gas”, “You’ve Got to Say Yes” e “One Big Family”) hanno coinvolto tutti in un tripudio collettivo, i momenti più trionfali e collettivi sono diventati qualcosa di magico che ha unito tutti i presenti in una sola voce (il finale di “Retread”, “All You Good Good People” e naturalmente “The Good Will Out”, durante la quale Danny si è quasi commosso per quell’affetto che stava ricevendo): a parole non riesco a rendere le emozioni che ho provato.

I bis sono serviti per eseguire il materiale più recente, anche se la riproposizone di “Dry Kids” (b-side storica proprio del periodo del primo album) mi ha davvero esaltato. Non sono mancati però anche due brani che mi hanno fatto storcere un po’ il naso, l’inevitabile “Gravity” (a conti fatti la loro canzone più nota) che per ovvi motivi avvicina fin troppo gli Embrace ai Coldplay e la confusionaria “Refugees” che, nonostante l’impegno di Richard alla voce, risulta essere lontanissima dal mood dei brani proposti nella serata e quindi, a mio avviso, non trova pienamente una sua giustificata collocazione in setlist. Il pubblico però gradisce, devo dirlo. “Ashes” è l’ultimo brano in scaletta e mette in campo un ritornello trascinante e un ritmo travolgente che fa chiudere la serata davvero bene.

Gli Embrace si concedono al loro pubblico per l’ultimo inchino. E sono ancora sorrisi e mani sul petto, mentre è proprio impossibile non notare quanto i due fratelli si assomiglino e mi faccio l’ultima risata vedendo ancora meglio il look assurdo del tastierista Mickey Dale che sembra voler assomigliare a Jason Kay dei Jamiroquai.

Ore 10.45. Si riaccendono le luci. Il sottoscritto e i compagni di trasferta Gianni e Claudio ci guardiamo intorno e vediamo solo gente soddisfatta, per non dire entusiasta. Il livello di beatitudine, ve lo assicuro, è stato molto alto e, tutt’ora, mentre scrivo, tocca ancora punte non indifferenti.

Una serata che non dimenticherò.