Credit: Emanuela Tortelli

Memorabile e carica di emozioni è stata la performance che ha regalato al pubblico italiano il frontman dei The Veils. Preceduto da una serie di date internazionali che lo hanno visto protagonista insieme alla band per presentare il loro ultimo e splendido album “…And Out Of The Void Came Love“, Finn Andrews ha intrapreso in occasione del mini tour da solo in Europa un viaggio di ritorno verso le origini, riportando, come dichiara un po’ emozionato a inizio serata, i brani allo stato originale in cui furono scritti, intimi ed acustici, spogliati della sezione ritmica e da ogni ulteriore arrangiamento. 

Il salone dell’Arci Bellezza è stato allestito per l’occasione con delle sedie e qualche tavolino per rendere l’atmosfera ancor più intima e raccolta per i fortunatissimi presenti, determinati a partecipare all’evento nonostante le festività imminenti e le rigide temperature invernali. Approdato da pochi giorni direttamente dalla Nuova Zelanda, Finn Andrews si dice estremamente felice di essere in Italia, paese a cui si sente molto legato e da cui mancava da tempo. Sale sul palco alle 22 esatte, preceduto da un’intensa performance della cantautrice palestinese Rasha Nahas.

Si presenta in abito scuro elegante con l’iconico cappello a tesa larga che da sempre lo contraddistingue, come un poeta diafano dai modi gentili e con quella voce profonda e potente che ha contribuito a rendere i The Veils una tra le migliori band della loro generazione. Dopo i saluti di rito e con una calorosa accoglienza da parte del pubblico imbraccia la chitarra per intonare “Not Yet”. Sciolto il ghiaccio passa al pianoforte con la splendida “Rings of Saturn”, che racconta essere stata scritta meditando sulla magnificenza del lontano pianeta osservato dal telescopio del Griffith Observatory di Los Angeles. 

Da quel momento in poi si ha la sensazione di essere sospesi in un non-tempo-non-luogo, grazie alla magia che solo la musica sa evocare, attraversando i confini immateriali dello spazio e del tempo, pur restando completamente immersi nel presente. Tocca a “Swimming with the Crocodiles” svelare un universo emozionale di sottili sfumature in cui la voce si muove tra le note come nuotando dolcemente in acque sicure.

Andrews regala anche un brano inedito che narra la storia di un “Fortune Teller”, destinato con ogni probabilità a far parte di un nuovo album e una sua personale versione di “State Trooper”, omaggio a The Boss e agli anni in tour negli Stati Uniti. La serata si snoda alternando pianoforte e chitarra, tra ricordi e aneddoti personali collegati ai brani, con cui ammette di avere delle relazioni a volte complicate, legate ai luoghi in cui li ha suonati e alla memoria che essi conservano. 

Giunge il momento della toccante “Lavinia”, con la voce carica di sentimenti di un giovane uomo ora maturata allo zenith del suo potere espressivo. Introducendola racconta che la scrisse a soli 14 anni e che sente da sempre un legame speciale con quel brano. Si apre così un macro capitolo dedicato all’album che nel 2004 portò i The Veils sotto i riflettori, l’indimenticabile “The Runaway Found“, che ebbe per mentore tra i produttori Bernard Butler dei Suede.

Come un prestigiatore che sapientemente eccelle nell’uso delle proprie doti, per esorcizzare la morte in tutte le sue declinazioni e a chiusura della prima parte del concerto, esegue magistralmente al piano “One by the Venom”, estratto dal suo album solista, su cui si proietta evidente l’ombra dell’immaginario gotico di Nick Cave.

Dopo una decina di minuti di intervallo, che sorridendo sostiene di aver programmato in scaletta come momento di ristoro, torna sul palco per deliziare con un lungo e nostalgico excursus nel passato con “The Tide That Left and Never Came Back”, “The Valleys of New Orleans” e “The Leavers Dance”. Le suona tutte al pianoforte, rallentate e trasformate in qualcosa di più intimo e minimale, rafforzando il loro malinconico potere evocativo e lasciando trapelare vividamente la tensione drammatica di un inguaribile cuore romantico.

Concludendo propone “One Piece at a Time” che fu pensata come l’inizio di un suo personale viaggio nei gospel agnostici e la travolgente “Axolotl”, che con i suoi possenti rintocchi sulla tastiera affascinò David Lynch tanto da volerla includere nell’ultima serie di Twin Peaks. Dopo aver ripreso la chitarra per regalare qualche minuto di ulteriore magia nell’encore con “The Wild Son”, si congeda avvolto da un’ondata di calorosi applausi, augurandosi di tornare nel prossimo futuro con l’intera band. Come canta in uno dei suoi versi “Though my memory’s fading, it’s still you that I find”, di certo é impossibile dimenticare quel tocco di classe che i grandi artisti come Finn Andrews sanno regalare e fa riflettere come le grandi canzoni abbiano il potere di splendere imperiture nel tempo, trionfanti suonate da un’intera band, così come rese acustiche e disadorne da una sola persona sul palco, sollevando un velo sui ricordi nel tentativo di ritrovare ciò che fugge via.