Nel 1996 la rete internet era agli arbori, la musica era ancora legata alla fisicità dei suoi supporti e l’esplosione dei blog, molti dei quali proprio a carattere musicale, era qualcosa di imprevedibile, per cui lo spazio libero, disponibile per le idee, per le buone idee, era lì, a portata di mano, per chiunque avesse la giusta dose di determinazione, di coraggio, di competenza e di passione.

E così che, dall’amore per la musica, in particolare per quella meno televisiva, ostentata e commerciale, nacque Pitchfork e divenne, nel corso degli anni, il punto di riferimento ideale – in una rete che diventava, velocemente, sempre più caotica, cacofonica, invasiva, invadente ed ostile – per tutti coloro avessero a cuore ciò che non veniva ancora intercettato dai bramosi e spietati radar main-stream, ciò che, all’epoca, veniva indicato, semplicemente, come “indie”, nel senso letterale del termine, senza preoccuparsi troppo se si trattasse di rock, di rap, di hip-hop, di elettronica, di contaminazioni, di sperimentazioni, di rumore o di nuove avanguardie.

Un concetto ed una voglia di multi-dimensionalità, di eterogeneità, di molteplicità, di apertura totale a visioni alternative della musica e dell’arte e, quindi, anche del mondo reale, della politica, della società e dell’economia, che, oggi, fanno davvero a pugni con quello che è un vero e proprio atto di fagocitazione di Pitchfork, del suo spirito critico, della sua essenza eterea e della sua intrinseca fluidità, da parte di una testata, GQ, che, invece, ha fatto sempre sfoggio di appartenere ad altro e, cioè, ad una realtà profondamente maschile, uni-dimensionale, fisica e materiale, che, in certo senso, Pitchfork, soprattutto all’inizio della sua storia, ha sempre rifiutato ed ostacolato.

Certo, i tempi sono cambiati, Pitchfork e le sue recensioni sono cambiate, l’indie non esiste più, gli algoritmi software studiano, puntualmente, i nostri ascolti, le nostre ricerche online, i nostri gusti, i nostri acquisti, i nostri commenti e ci propongono, automaticamente, ciò che dovrebbe interessarci, illudendoci di avere una infinita miriade di possibili scelte che, invece, collassano sulla triste scoperta di non avere più nessuna vera scelta. Noi ne siamo assolutamente consapevoli, lo scriviamo e ne discutiamo, ma, allo stesso tempo, vuoi per convenienza, per inerzia o per timore, non abbiamo alcuna intenzione di ribellarci.

Intanto, però, di fonte a ciò che sta accadendo, a quella che è la fine di una visione critica della musica e l’identificazione completa della qualità con la remuneratività, qualcuno prova l’amaro sapore della sconfitta, la sensazione che Golia, alla fine, debba necessariamente vincere e quella di Davide era solamente una sciocca, traumatica fantasia, l’esaltazione passeggera di un poveraccio al quale non resta che leccarsi le ferite, limitare i danni, accettare la prepotenza, indorare il passato e ritirarsi in un angolo, sperando di non far parte di quelli che verranno licenziati, esclusi, emarginati, dimenticati, bocciati o boicottati, ma che gli venga offerta qualche briciola per tirare a campare.

Tanto domani quegli algoritmi di controllo e di manipolazione saranno ancora più efficienti ed efficaci e, probabilmente, grazie alle immancabili intelligenze artificiali, saranno in grado di comporre, suonare e produrre la canzone perfetta per ciascuno di noi, per il momento che stiamo attraversando, senza la necessità di qualcuno che la componga, di qualcuno che la suoni e di qualcuno che la produca, ma soprattutto di qualcuno che viva quelle esperienze reali e quei piccoli e grandi drammi che hanno provocato le emozioni, i sentimenti, i dolori, le gioie e le delusioni che, successivamente, una limitata ed imperfetta mente umana ha trasformato in musica. Meglio, invece, evitare gli errori, sprecare tempo e denaro, rischiare di prendere abbagli ed affidarsi ad una più lucida ed economica mente virtuale.

E gli altri? Gli altri, quelli che non abbracciano questa visione narcotizzante e ipercalorica della realtà, resteranno intrappolati nelle loro macchinose ed opinabili nicchie di blog ignoti, di parole sprecate, di tempo inutilmente speso in faticose letture ed ascolti incrociati, in una lugubre scatola di disperazione, sognando che, prima o poi, Nico bussi alla loro porta. Ma Nico è perduta e voi non siete altro che dei poveri vecchi e vecchie ragazzi e ragazze soli, sepolti vivi nella vostra new-wave, abbracciati ai vostri stupidi giocattoli shoegaze, con le idee messe a soqquadro dall’alcool, dagli amori disincantati, dalle nebbie di Seattle e dalle frenesie urbane, punkeggianti e periferiche di una band noise-rock, siete degli ostinati troll, acidi e psichedelici, che rifiutano di pietrificarsi alla luce prodotta da un flusso incontenibile ed incommensurabile di elettroni impazziti che, ormai, scorre ovunque, decretando ciò che è giusto e ciò che sbagliato, ciò che è bello e ciò che è brutto e ciò che deve essere acquistato, dismesso, riorganizzato, rivalutato, inglobato o sminuzzato in tanti, tantissimi minuscoli pezzettini.

Chi o cosa credete ci sia, in fondo, dietro alle logiche aziendali di Condé?