Che gli Mgmt siano uno dei progetti più interessanti degli ultimi vent’anni, non c’è ombra di dubbio, partiti, come si suol dire, con il botto, con quell’esordio folgorante, “Oracular Spectacular“, che ancora oggi è super ascoltato e, da un certo punto di vista, irresistibilmente pieno zeppo di perfect pop songs, un concentrato di melodie vincenti, quasi impossibile da replicare.

Credit: Jonah Freeman

Poi una carriera, a mio avviso, sempre di altissimo livello, grande gusto per scelte eccellenti, mai banali, senza mai ripetersi, mantenendo sempre l’asticella alta, quindi ogni nuova pubblicazione è giustamente un piacere ed un piccolo evento. Per quanto mi riguarda, sono sinonimo di garanzia.

Ben sei anni dopo lo stralunato “Little Dark Age“, che racchiudeva già nel titolo la direzione artistica del racconto, tornano con il loro quinto album “Loss of life”.

Per la cronaca, in questo lungo periodo di assenza, hanno pubblicato “11.11″ passato forse in sordina, quasi inosservato, ma trattasi di un album dal vivo di materiale psichedelico di dieci anni prima della sua release, una sorta di esperimento, ampiamente nelle loro corde.

Detto questo, il disco nuovo, scritto in un lasso di tempo dilatato, risulta essere una sorta di ripartenza e rinascita, è bello come sempre, ma non è perfetto, il tempo, comunque, dirà se almeno in alcuni episodi, il materiale è arrivato per rimanere e fare la differenza oppure no. A volte i dischi necessitano di fermentazione per essere compresi a dovere.

Sei anni, comunque, significano accumulare tanto materiale, su cui poter poi selezionare e produrre, quasi un esordio ex novo, non è automatico sia chiaro, ma può essere un dogma da seguire per avere album di spessore e non prodotti, a volte frettolosi, solo per il mercato.

Ci sono episodi di questo lavoro che mi fanno pensare che il collettivo di Brooklyn, sia tornato di gran carriera, altri forse meno appariscenti.

Bellissima, per esempio, “Nothing to declare”, ballata crepuscolare, dal sapore classico, universalmente evergreen, con un delizioso video al seguito, “Bubblegum dog” invece è indie anni novanta mischiato alla solita psichedelia sbilenca, a cui ci hanno spesso abituato, con un piccolo muro di distorsioni al seguito, già cult da repertorio mgmt.

Un po’ meno incisivo “Dancing in Babylon”, il singolo con Christine and the Queens, per una ballad in totale libera uscita nel mainstream moderno, probabilmente un’occasione persa, canzone in sé non così irresistibile, sebbene ottimamente arrangiata, ma troppo patinata per i miei gusti.

La ballad sintetica e sperimentale di “I wish I was joking”, non incide, ma si lascia ascoltare, strappando un sorriso, ottima, invece, la title track, non per la melodia non indimenticabile, ma per l’arrangiamento ricco di dettagli, che, nell’incipit iniziale, ricorda il percorso di certe pop songs del maestro Mark Linkous, per poi trasformarsi in un sound libero, quasi sperimentale, la solita genialità buttata sul piatto dal duo newyorkese.

C’è anche il pop rotondo e leggero di “Mother Nature”, quasi fosse preso in prestito dall’epoca del brit primordiale di metà anni novanta; delizioso, invece, il pop sofisticato di “People in the streets”, arrangiamenti sopraffini e scrittura di buon livello, quindi stupenda “Phradie’s Song”, che probabilmente da sola vale il prezzo del biglietto, un confidenza psichedelica, sublime, esteticamente di grande impatto ed emozionante.

Per concludere, un disco, che non può e deve deludere, perché basta una manciata di buone canzoni per farci cambiare umore, il rovescio della medaglia è che da dei campionissimi come loro ci si aspetta sempre brani di valore come quelli succitati in questa recensione, non accettando, di fatto, quelli solo sufficienti.