Sette vite come i gatti e neanche una che abbia preso la piega sbagliata. Musicalmente almeno. Già. Perché Jack Antonoff può considerarsi, a giusta ragione aggiungeremmo, una sorta di Re Mida dell’universo indie-pop (rock). Poco da dire. Come definireste, altrimenti, uno che riesce a spaziare dal macrocosmo ipercolorato di Taylor Swift a quello decisamente più cupo e sottile di Lana Del Rey, con la stessa nonchalanche con cui “un certo” Quincy Jones riuscì a convincere, quarant’anni or sono, circa una cinquantina di artisti (tra cui Bob Dylan ed il Boss) a riunirsi tutti nella stessa stanza per la realizzazione di una canzone benefica (superfluo ricordare quale).

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E la suddetta similitudine non è affatto azzardata o buttata lì alla mentula canis. Ci mancherebbe. Sì. Perché è inutile girarci intorno: piaccia o meno, il buon vecchio Jack non è un mero protagonista dello showbusiness musicale o solamente “un” producer, ma il producer degli Anni Venti. Ed i Bleachers rappresentano la sua band-non band-rifugio in cui il Nostro si sente libero di sperimentare come e quanto vuole.

Ed in tal senso l’album omonimo appena pubblicato non è altro che il continuum di un percorso iniziato più di un decennio fa e che trova proprio nella quarta sortita in studio del gruppo americano, il suo apice dorato. Nei quattordici brani (dell’edizione standard) che vanno a comporre la tracklist del disco in questione, infatti, si respira un’atmosfera intrisa di un sound dai richiami vintage (gli 80s stanno ad Antonoff come la racchetta a Federer) mescolata al rock and roll di Springsteeniana memoria che tanto piace ai Bleachers ed a loro leader indiscusso.

Basti pensare, del resto, al singolo che ha aperto la nuova era della formazione americana, quel “Modern Girl” che sembra uscito fuori direttamente da “Born In The Usa” o, se vogliamo, da uno degli album Ottantiani del Billy Joel più scanzonato (siamo dalle parti di “An Innocent Man”, tanto per intenderci). Volendo restare aggrappati a dei termini di paragone un po’ più attuali, invece, potremmo affermare – banalmente – che in alcuni episodi del loro album omonimo i Bleachers abbiano fatto un po’ il verso ad alcune delle opere più recenti dei The War On Drugs.

Non che sia necessariamente un male, per carità. Va da sé, naturalmente, che la band del New Jersey dia il il proprio meglio quando si spinge in territori a lei più consoni e congeniali: “Me Before You”, per esempio, è una sorta di mix (piuttosto riuscito) tra i Dire Straits del periodo “Brothers In Arms” ed il Boss (sì, sempre lui) di “I’m On Fire”. E cosa dire di “Alma Mater” se non che il connubio tra la Del Rey ed Antonoff è uno dei più collaudati dell’attuale scena musicale? E la stessa (alta) qualità la si respira pure nella luccicante “Call Me After Midnight”. Ovvero, una delle tracce più convincenti del lotto.

“Tiny Moves” e, soprattutto, “Isimo”, sono gli altri due pezzi “highlight” di un album che nel corso degli anni non sarà ricordato alla stregua di “The River” o di “A Deeper Understanding”, ma che nel suo piccolo riesce a far emergere tutta quella malinconica lucentezza al neon di cui Jack Antonoff è indubitabilmente il gran maestro.

Una tranquilla passeggiata serale tra le strade gelide di una New York non ancora primaverile ed uno schizzo geniale ed un po’ anacronistico del grande Keith Haring. Questi sono i Bleachers e questo è l’humus del loro quarto capitolo discografico.