Con una solennità nascosta, col piglio di chi sa di avere in dote qualcosa che con poco diventa potentissimo, Jessica Pratt ci mette nelle condizioni di doverci piacevolmente soffermare su questa sua nuova fatica, con l’effetto imprevisto che si ha di fronte a qualcosa di spiazzante e allo stesso tempo eterno.

“Here in the pitch” ha quella dote esclusiva di essere perfettamente riconoscibile come un riuscito tentativo di convogliare il minimalismo folk tipico della Pratt, impreziosito dalla sua particolare accattivante interpretazione, verso un suono che abbraccia la tradizione west coast, come se i Beach Boys meno rumorosi incontrassero Nico, il tutto assecondando la netta sensazione di avere a che fare con qualcosa di difficilmente contestualizzabile, che sfugge alle mode e alle dimensioni contemporanee: sembra quasi di maneggiare un nastro ritrovato, qualcosa di dimenticato negli scaffali di un vecchio negozio di dischi da un’era passata e che qui nel 2024 riappare in tutta la sua bellezza eterna, intriso dalla polvere del tempo e dalla patina retro, come se il tempo appunto non avesse la forza di scalfirlo ma appartenesse ad una specie di patrimonio musicale dell’umanità.

C’è un mood talmente stringente dentro quest’album, vuoi per la sua omogeneità, vuoi per la giusta breve durata, che si potrebbe benissimo pensare che qualcuno fra 100 anni si ritrovi a riscoprire queste melodie e rimanerne ancora primitivamente conquistati, come quando l’ispettore Deckard in “Blade Runner 2049” sente spezzoni di un vecchio classico di Sinatra nell’hall abbandonata del club.

La Pratt dice di aver voluto riflettere su ciò che è rimasto nell’aria della California degli anni 60/70, rievocandone il gusto, facendo affiorare quel tipo di universo sensoriale in cui bastava evidentemente poco per suggerire tanto: di fatto quello che sorprende e che rende importante “Here in the pitch” è la sua capacità di essere molto aderente alle sensazioni che provoca, in primis una struggente malinconia, la percezione della vita beffarda , che scorre inesorabile con tutti i rimpianti ed i rimorsi, una colonna sonora che ti conquista ma lascia un riso amaro e che ti porta lontano, un senso di sollievo e di gratitudine alla fine delle nostre fatiche quotidiane, una carezza consolatoria.

Rispetto inoltre ai precedenti lavori, qui la Pratt gode dell’apporto diffuso di una band che con grazia e tocco la accompagna, accordando a volte un tono quasi spectoriano, come nell’iniziale “Life Is”, a volte portandola in territori bacharachiani, come nello splendido finale “The Last Year”, da fischiettare all’infinito, suggello ad un album delizioso, importante e raro, che potremmo tranquillamente riscoprire come uno scrigno segreto fra chissà quanti anni ancora, ritrovando le stesse intatte emozioni.