di Samaang Ruinees (recensione che trovate sulla pagina Facebook di Horror House)

Jack è un ingegnere che vuole essere un architetto. Jack è Mr. Sophistication, un serial killer che insegue un ideale d’arte.

Articolato in 5 episodi chiave legati da una cornice che nel finale esploderà  in una maestosa visione dei destini dell’uomo. Questo non solo si candida ad essere il film definitivo sulla figura del serial killer, esplorandone i diversi aspetti psicotici da manuale con una grazia inaspettata, e citando gli archetipi di questa figura così come mostratisi nella vita reale e riletti dal cinema di genere. Ma, nel suo esplorare i dettagli delle piccole possibili deviazioni della psiche umana, deviazioni che se diventano prevalenti trascendono il carattere e trascinano nella psicosi, è una riflessione definitiva sui rapporti tra uomo e società . Incluso il sottoinsieme della relazione tra uomo e donna che viene qui sezionato in maniera crudele.

La costruzione narrativa è affidata al dialogo tra Jack e Verge, che lo accompagna nel suo ultimo viaggio. All’inizio del film siamo liberi di immaginare come e dove si svolga questo viaggio. Io me lo sono figurato come il discorso tra il secondino e il detenuto che percorre il miglio verde, quel corridoio che separa le celle dei condannati a morte dalla camera di esecuzione della pena capitale. Ma una soluzione del genere non è nulla rispetto a quello che Von Trier ha tenuto in serbo per noi.
Una delle chiavi di lettura è, per me, il cartello stradale troncato del vicolo che conduce alla tana di Jack (non la sua casa, non ancora): prospect avenue. Troncato com’è, risulta un sigillo magico che rende invisibile alle autorità  il suo covo. è troncato prima della (seconda) P, indicando solo PROS. Professionisti.

Il racconto di Jack procede per episodi, che lui ritiene significativi per delineare la costruzione della sua esperienza nel mondo. Episodi inframmezzati da inserti video e grafici in cui Jack ferma per Verge e per noi le suggestioni che ha raccolto nel corso della vita. Quello che normalmente nei film di serial killer è il quaderno sgualcito, pieno di foto e articoli ritagliati e incollati e trasformati con un pennarellone nero e commentati con grafia instabile e simboli occulti.
Briciole di pane seminate con maestria, con apparente noncuranza e disorganizzazione, ad inframmezzare omicidi brutali che dipingono Jack come un meta-killer dal modus operandi cangiante. In continua evoluzione e in continuo ripensamento, come le suonate avanguardistiche e classiche insieme di Glenn Gould.
Pennellate date con vigore sulla tela, con furia, abbandonate e riprese. Fino all’ultima pennellata rivelatrice che delinea la perfezione del quadro.

La cura estrema del dettaglio non fa smarrire la via a Von Trier che nel percorrere il labirinto cangiante della mente di Jack si affida ad un filo rosso (letteralmente: in ogni inquadratura è presente un elemento rosso ciliegia). Presagio della veste da pellegrino che indosserà  nell’ultima parte del suo viaggio. Non vale la pena stare a sottolineare la tecnica di ripresa e di montaggio, apparentemente “indie” con questa camera a mano convulsa ma precisa. Il ciclico inframmezzare con “documenti” dalla grana e dal formato “sbagliato” e documentaristico una danza di immagini che sono pensieri, anzi intuizioni, epifanie, ci espone (nel senso: ci assoggetta) alla “riduzione per assurdo” fatta dall’Artista (Mr. Sophistication) dei dati grezzi e convenzionali che la società  ci propone. Lui li rielabora, con la sua dialettica stringente e la pronta capacità  manipolatrice, e crea una sua regola perfetta. Come mostrato nella scena della mietitura, quel respiro e quel gesto collettivo, cui fa eco il suo gesto solitario.

Scena che torna nel Gran Finale e strappa una lacrima a Jack.