Andy Stott è un rivoluzionario o è più semplicemente un arrampicatore sociale? Il suo secondo lavoro “Luxury Problems”, pubblicato dopo una sequela di fortunati EP che lo hanno consacrato come uno tra i più promettenti dj in circolazione, offre due chiavi di lettura. La prima, più romantica e se vogliamo “politica”, suggerisce che intitolare un album “Luxury Problems” sia un gesto forte e provocatorio, in quanto notoriamente dub, techno e trip-hop sono generi che più di altri ben si identificano con i sobborghi e le tribù di working class people che le animano.

Secondo questa chiave di lettura Stott sarebbe un rivoluzionario, in quanto i “problemi del primo mondo” non sarebbero un lamento proveniente dall’agiatezza, ma un urlo di vendetta che si propaga dalla miseria.
L’altra interpretazione è decisamente cinica e se vogliamo anche più realista. Questa seconda chiave di lettura, avvallata dall’artwork patinato preso in prestito dalla campagna pubblicitaria primavera/estate della CK, sostiene che “Luxury Problems” sia il biglietto d’ingresso per Andy Stott nei club più in della Londra bene. Il dovuto riconoscimento sociale ed economico (e sappiamo quant’è classista la cara vecchia Inghilterra), dopo anni trascorsi ad eccitare il pubblico clandestino dei rave party.

A confermare questa seconda ipotesi è la scelta di Stott di rendere più morbide ed accessibili le anguste strutture che hanno caratterizzato i precedenti EP “Passed Me By” e “We Stay Togheter”, rimuovendo quel senso di irreversibilità  che rendeva particolari le sue creazioni. In tutta franchezza è la medesima operazione eseguita ad inizio anno dai colleghi di etichetta Demdike Stare, che con “Elemental” hanno semplificato la propria proposta. Non è stato esattamente un cambio di stagione, ma si sono mossi quel tanto che basta per aprirsi ad un pubblico più vasto.

Allora Andy Stott è un rivoluzionario o un arrivista? Un regista e cospiratore è la risposta. “Luxury Problems” si muove sulla medesima falsariga di “Elemental”: le atmosfere sono le medesime con la sostanziale differenza che Stott non sfrutta suggestioni esoteriche, non provoca inquietudini già  in nuce nell’animo umano, ma introduce l’ascoltatore in una realtà  parallela. Autore più narrativo che descrittivo, Stott non evoca o allude ma racconta e sottolinea passaggi. Muovendosi come un regista che dal set passa alla sala montaggio, crea prima l’artificio e poi ne sviluppa l’intreccio. L’ascoltatore/spettatore è così coinvolto nelle sue costruzioni dal punto di vista prettamente estetico. Gli spazi entro cui si evolve l’azione della musica di Stott infatti, non sono spazi esistenziali ma vere scenografie che rappresentano una realtà  diversa da quella del quotidiano.

Cospiratore perchè Stott mantiene saldo un piede nei rave party e con l’altro conquista il club, facendo confluire i diversi tipi di pubblico in un’unica tribù tutta tesa a ballare sulle note di “Sleepless”, brano dub-techno con ascendenze trip-hop, esempio lampante della quadratura del cerchio raggiunta da Andy Stott con “Luxury Problems”.

In scarni 50 minuti “Luxury Problems” condensa tutta la classe del dj mancuniano, il quale porta avanti l’eredità  dei Dead Can Dance nell’affasciante “Lost and Found” e dei Massive Attack in brani come “Hatch The Plan” e “Luxury Problems”. Costruito sulle sfumature, l’ultima fatica di Andy Stott conferma l’ottimo stato di salute culturale dell’Inghilterra più suburbana.