(Pre)annuncio: l’artista di cui andremo a parlare nelle prossime righe potrebbe rivelarsi una delle sorprese dell’anno da poco cominciato, e il suo “Cabinet of Curiosities” potrebbe altrettanto facilmente venire incoronato come migliore ‘Album di debutto’ da qualche anno a questa parte. Siamo al diciannove di febbraio e parlare di migliore o peggiore è ovviamente relativo, ma Jacco Gardner ha tutte le carte in regola per ambire alle più o meno rilevanti onorificenze future.
Spuntato come un fungo dal nulla, Jacco con quel look retrò, un po’ alla Ray Davies un po’ da Dandy del ventunesimo secolo, che viene spontaneo chiederti se per caso gli orologi si siano fermati all’anno solare 1966, e con quel viso acqua e sapone, ti si para davanti con l’intenzione di stupire riuscendo con estrema nochalance a cogliere l’obiettivo.

Si fosse trovato in una Cambridge o una Canterbury di circa quarant’anni fa potremmo facilmente immaginare che questo giovane prodigio olandese (ebbene sì) non avrebbe faticato ad entrare nel giro di quei menestrelli affascinati da letteratura e arte bohèmien nonchè dalla sperimentazione selvaggia di qualsiasi tipo di droga passasse sotto il loro naso.
Jacco Gardner fluttua in una dimensione temporale tutta sua e la musica che fa da sottofondo al suo viaggio ‘interstellare’ racchiude in essa l’essenza della psichedelia dei primi Pink Floyd targati Barrett (“Clear The Air”, “Where Will You Go”, “Watching The Moon”), la schizofrenica creatività  di un geniale Brian Wilson (“Puppets Dangling” e “The Riddle”) e la purezza delle vellutate melodie a cavallo tra Zombies e Kinks (“Lullaby”, “Chameleon” e “The Ballad Of Little Jane”).

Il tutto racchiuso in quaranta coloratissimi minuti in cui Jacco Gardner da sfoggio delle proprie capacità  di multistrumentista, mentre a noi che ascoltiamo non resta che chiudere gli occhi e lasciarci trasportare dalle ipnotiche note suonate dal giovane pifferaio magico di Zwaag.

Foto Credit: Nick Helderman