Ottavo lavoro in studio per la band nordirlandese capitanata da Tim Wheeler, a tre anni di distanza dal precedente “Kablammo!”.

Le aspettative , quando ci troviamo di fronte a dei gruppi come gli Ash , bandiere del pop-punk a cavallo tra i due secoli, sono comunemente palesi e condivise: non gli si chiede innovazione o sperimentazioni particolari, il benchmark è solitamente quello di “riconfermarsi”, con i pro e i contro a cui si può incorrere, come se gruppi di questa matrice fossero invulnerabili all’incedere inesorabile del tempo ed immuni a qualsivoglia influenza del mondo esterno e del suo divenire.

In “Islands” però il passare degli anni si nota esclusivamente in una matura, seppur semplice ed a tratti banalotta, stesura dei testi, più che nelle melodie e nella parte strumentale che si confermano essere, appunto, quello che ci si attendeva. Al netto di ballad come “Don’t Need Your Love” e di pezzi più strutturati come “Confession in The Pool” (che sembra uscito da un album degli ultimi Franz Ferdinand), ritroviamo chitarre che ronzano in naturalezza, un sound esuberante ma educato (non male, però, la più blues e Black Keys “Did Your Love Burn Out?”), per un album vitale, luminoso e piacevole, al contempo pervaso da continuo senso di prevedibilità  e scontatezza. La timbrica vocale di feltro di Tim Wheeler è inconfondibile, le impennate di chitarre e batteria ben programmate, la setlist dei brani lineare ma alla quale manca però, drammaticamente, il banger: e per una band che ci ha nel tempo consegnato pezzi indimenticabili come “Girl from Mars” o “Burn Baby Burn”, di quelli ottimi per aprire il finestrino della macchina e alzare i giri del motore, dovrebbe rappresentare il vero valore aggiunto.

Ma agli umili e schietti Ash, in un momento storico/musicale pieno di personaggi a tutti i costi, perdoniamo questo ed altro.

Photo: Alex John Beck