Abbiamo intervistato Eugenio dei Siberia per farci raccontare “Tutti Amiamo Senza Fine”, nuovo disco della band in uscita domani, per Sugar.
Il lavoro ha delle caratteristiche molto diverse al passato ma mostra una coerenza autoriale di fondo che è assolutamente rintracciabile e unica. I Siberia hanno un tocco, un’impronta, che nonostante i cambi di stile, si imprime sui pezzi, sulle atmosfere raccontate e anche nelle orecchie, sui vestiti e nella mente di chi ascolta.
Noi ci siamo fatti raccontare come sono nati i brani del disco, ma soprattutto ci siamo fatti spiegare i pensieri nascosti, reconditi, racchiusi nel lavoro.

Nella precedente intervista con noi ci avevi raccontato “l’artista pop come un sacerdote”. Come avete concepito questi pezzi nuovi alla luce di questa frase, avete pensato di diventare anche voi “sacerdoti”?

Il lavoro che abbiamo fatto per “Tutti Amiamo Senza Fine” è stato molto diverso, ci siamo trovati a raccontare tutto in un modo nuovo. Abbiamo anche riconsiderato l’idea di come ci ponevamo con il pubblico: tutto questo è nato con il tour, infatti in oltre 35 date abbiamo imparato a conoscere le persone che ci seguivano.
Molti ci hanno detto che dal vivo riuscivamo a trasmettere un’energia molto più forte, ma dall’altra però si aspettavano di trovare persone molto seriose, quando in realtà  noi siamo molto solari e positivi.
Il tour ci ha fatto passare momenti insieme che ci hanno fatto filtrare tutto con una luce più leggera, l’animo umano non è marmoreo e statuario, ci sono tante cose da considerare.
Parlando di amore abbiamo sentito come fondamentale il poter far trasparire la verità  di quello che siamo. Con il tour abbiamo vissuto una nuova adolescenza, allora abbiamo cercato di fare una crasi tra la nostra “pesantezza” ma anche con la nostra parte legata alla spensieratezza. Quindi in un certo senso non è che ti sconfesso la frase dell’altra volta, ma sicuramente abbiamo visto tutto con una luce diversa.

Un pezzo chiave dell’album è “Ian Curtis”, lui sicuramente è stato un sacerdote dell’arte. Hai altri “sacerdoti” /esempi che ti ispirano nel lavoro quotidiano (non legati alla musica)?

Nel cinema c’è sicuramente Refn, autore di “Drive” ma anche della serie di “Too Old To Die Young”, anche se non lo vedo vicino al mondo dei Siberia. Posso dire però che nei suoi lavori la violenza e la ricerca della redenzione, della salvazione mi attrae.
Nick Cave invece sicuramente è quello che noi consideriamo come un punto di arrivo, ci piacerebbe anche a noi cambiare faccia, riferimenti ed essere, nel corso del tempo, variegati. Ci piacerebbe arrivare a 60 con la lucidità  e la capacità  di cambiare. Lui si è sempre messo in gioco nel cambiare, per questo credo sia esemplare.
Noi come band ci sentiamo molto vicini e speriamo anche noi di essere insieme per anni, speriamo veramente di reinventarci disco dopo disco.
In questo discorso sento di citare gli Zen Circus, perchè loro sono un gruppo in cui si ritrova veramente il concetto di band.
L’unione in loro emerge, sono persone che hanno tanto da raccontare e hanno la capacità  di farlo in modo corale.

Com’è nato il titolo del disco, anzi l’idea di fondo del: “Tutti Amiamo Senza Fine”?

Quando ho scritto la canzone mi sono reso conto che c’era una vera identità  tematica, mi risuonava da giorni questo pensiero del “Tutti Amiamo Senza Fine”. Inizialmente nemmeno sapevo se il brano sarebbe finito nel disco, mi sembrava molto legato al passato, non solo alla scrittura dei “vecchi Siberia”, ma di base mi sembrava molto, forse troppo carica di contenuto, ma ho sentito l’esigenza di scriverla ugualmente perchè poteva essere una cornice perfetta per le altre canzoni.
Io volevo parlare dell’amore come un qualcosa di connaturale all’uomo, ma che spesso può portare a immagini brutte, terribili. Ho spostato l’attenzione a chi perpetra queste violenze, in cui l’amore sostanzialmente marcisce. Nel brano ci sono varie immagini che non evocano innocenza.
Un amore che diventa odio, non è un amore vissuto sempre con innocenza. “Tutti amiamo senza fine” è perchè l’amore è un concetto di salvezza, ma non solo questo, è tanto tanto altro.

Nel disco si analizza molto il tema della sofferenza e della bellezza. Oggi siamo più abituati a l’uno o all’altra?

Oggi siamo fondamentalmente abituati alla noia.
Questo è rappresentato anche dal rapporto con la tecnologia, abbiamo tutto a portata di mano dai porno alla semplice ricerca per scoprire chi canta una canzone che ci piace. Anche il fatto di poter acquistare tutto online degrada i rapporti e li rende frammentati. L’idea di Death Stranding (videogioco) in cui c’è bisogno di ricostruire i legami credo che sia molto calzante per spiegare il problema. La noia cerchiamo di curarla con impulsi frequenti ma insignificanti. Tutto questo genere una sofferenza, ma non salvifica o redentrice, perchè questa noia ci avvelena lentamente. è un pochino la metafora della “Rana Bollita”, che quando si accorge di essere fottuta è troppo tardi.
Il mio non è un esaltare la sofferenza, sarebbe sbagliato ma alcune volte può portarci al meglio. Quando in Carnevale dico “Sono fatto e non riesco a pensare“, non faccio riferimento alle sostanze stupefacenti, ma semplicemente agli impulsi e agli stimoli che mi drogano e non mi permettono di tirare fuori una valutazione lucida delle questioni.

L’altra volta ci siamo molto soffermati sull’analisi dei testi delle vostre canzoni. I testi sono molto efficaci, tutto è limpido. Quali sono le parole chiave che ti sei dato per scrivere?

Ci tengo a dire che anche Cristiano, il nostro bassista, questa volta ha collaborato attivamente nella scrittura del disco.
Le parole chiave è difficile trovarle, mi viene in mente una frase di Piangere: “è un mondo misero ma non ci fa paura“, non ti nego che dopo averla scritta ho risentito molto l’influenza dei Baustelle e della New Wave, mi viene in mente “Nessuno” (dei Baustelle): “Vieni a vivere con me un mondo atroce e vieni qua a sopportarne la follia“, io volevo in un certo senso superare l’idea del mondo misero, l’idea era quella di vincere il mondo misero e andare oltre.
L’amore, la fragilità  e la bellezza possono aiutare veramente a vincere la follia di fondo.

Nella tracklist l’ultima parola è “Peccato”, cosa significa per un artista oggi questa parola?

Io mi sono trovato veramente a chiedermelo e sono contento sia uscito questo tema. Sicuramente è una canzone che non scintilla, a primo impatto, perchè la sua produzione non è patinata.
Il brano è stato scritto con immensa difficoltà , in quel periodo ho, e lo dico con sincerità , avuto a che fare con l’idea del suicidio. L’idea del peccato è duplice nel titolo: c’è l’esclamazione, ma anche la ricerca del senso di Peccato, in chiave Cattolica.
Io ho avuto un’educazione cattolica, mi professo assolutamente cattolico ma credo che, anche avendo tre compagni di band che sono atei/agnostici, mi sforzo nel trovare una chiave laica nelle canzoni. Per me il peccato è il senso dello spreco, l’auto inflizione della perdita della vita.
Per i cattolici il peccato è mancanza d’amore, assenza di Dio. L’inferno è la privazione di Dio. Io credo che l’idea del peccato sia proprio condensata nello spreco della bellezza di cui si ha disponibilità .

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