Non manca di certo l’audacia al duo inglese capace di azzardare nell’operazione “Die Cuts/City Planning” un doppio album di ben 25 brani, che espongono il presente binario del progetto Mount Kimbie, declinandolo in modo equo e sequenziale  nel lato melodico di Don Maker prima e quello diciamo più dancefloor di Kai Campos nella seconda metà .

Ne esce un ibrido poliforme, un doppio azzardo che potrebbe essere perfettamente in linea però con una singola intera serata, divisa in una prima parte che accoglie sentimenti e saliscendi emotivi, malinconia e desiderio di affetuosità  mentre poi si mollano gli ormeggi e si va a ballare, a conclusione di chissà  che cosa, che poi non matura o non c’entra, l’importante è farsi scivolare addosso questa dance esaltante.

Certo, a ben vedere la maturazione del post dubstep dei Kimbie si sente nella sua pienezza nella facilità  di scrittura di Maker, negli intarsi soul dentro le scritture digitali, nel perfetto incastro delle interpretazioni delle diverse nobili voci che rendono queste composizioni dei piccoli esemplari di genere: “in your eyes” con Danny Brown e Slowthai dall’urgenza urlata e repressa, nella dolcezza lirica dell’enorme “somehow she’s still here” del pigmalione e amico James Blake, campione proprio con il duo di questo genere.

Insomma , la ricerca del suono campionato, la struttutra dei brani che partono da un trip hop di carica e struggente memoria (“say that”) portano queste canzoni a profumare una sensibilità  decisamente originale, mai noiosa, eterogenea ma sempre impreziosita dalla voce che le sorregge, in particolare le voci femminili che ricostruiscono una appartenenza black più marcata, vedasi ad esempio “tender hearts meets the sky” con keyaa che sembra e fa bene una giovane Erykah Badou, nel tipico gioco del duo di implodere il ritmo dentro delle linee di synth, di far emergere l’attesa di qualcosa che invece già  scorre dentro.

Dopo aver bevuto l’ultimo drink con Maker, si passa senza sosta ma con una continuità  sequenziale apparentemente distante, al tribalismo quasi no label di Kai Compos , dove il distacco dai temi suggeriti dal compagno si materializza in un minimalismo quasi garage, simile alle ultime cose di Fourtet per capirsi (“Q”, “Quartz”) con brani che cercano la pista (“Satellite 7” , “Zone 1”, “Zone 2”) ma che non sempre la richiamano in quanto deviati da un suono a volte psych (“Transit Map”, “Satellite 6”), a volte rimangono soffusi, a volte vanno via un pò col pilota automatico.

Ma se il proposito era quello di esaltare al massimo le personalità  delle due anime della coppia londinese, “Die Cuts/CityPlanning” riesce nel suo primario intento, con il consiglio di provare ad usare la modalità  random nella riproduzione, così da mischiare i generi, nell’imbarazzare l’ascolto, nel dare un parallellismo immediato al gusto di questi suoni decisamente figli meritati di questo post tempo.

Credit Foto: Bolade Banjo