SLOTTSKOGEN PARK
FLAMINGO STAGE: JENNY WILSON, VAMPIRE WEEKEND, NAS, BASEMENT JAXX, LILY ALLEN
AZALEA STAGE: CALEXICO, DEAD PREZ, AMADOU & MARIAM, MY BLOODY VALENTINE
LINNE STAGE: PATRICK WOLF, [INGENTING], OLLE LJUNGSTROM, FLORENCE VALENTIN, WOLFMOTHER, ASHER ROTH, TEDDYBEARS

CLUB
TRADGAR’N: LET’S WRESTLE, GANG GANG DANCE, DEERHUNTER
ANNEDALSKYRKAN: PETER BRODERICK, FIRST AID KIT, FINAL FANTASY
STICKY FINGERS: ADOLESCENTS, JAY REATARD
PUSTERVIKSBAREN: FOX MACHINE, WOODPIGEON, LOOSEGOATS
KAJSKJUL 8: FORM ONE, WALE
PARKEN: DAVID SANDSTROM, LADYHAWKE
VARLDSKULTURMUSEET: ALL OUT DUBSTEP, MAX PEEZAY, L-WIZ, MAGNETIC MAN feat. BENGA & SKREAM

Dopo l’esperienza rude e fin troppo british di Echo & The Bunnymen che aveva chiuso la nostra seconda giornata di Festival, apriamo la terza e ultima con un uomo che si dimostrerà  donna ai massimi livelli ma artista coi contro coglioni.
Ad aprire l’ultimo giorno di Way Out è Patrick Wolf, regina incontrastata e folle del Linnè Stage. Alle 13 il londinese sale sul palco indossando una bella tutina aderente ““ e, supponiamo, da lui creata ““ con sopra una monocroma Union Jack. Frivola e quanto mai glamour anche la fascia che ha in testa, un incrocio tra una freaketteria stile MGMT e un accessorio spirituale da indiano Sioux. Abbigliamento a parte, Patrick stupisce subito coloro che, come noi, lo avevano visto qualche anno fa, quando invece faceva della sobrietà  e dell’intimismo due caratteristiche immancabili nei suoi live. Al Way Out il Nostro si scatena fin dall’inizio, zompettando qua e là  mentre suona la chitarra elettrica in “Hard Times” e “Accident & Emergency”, sedendosi al piano per commuoverci con pezzi come “Enchanted” e “Augustine” e scatenandosi con incredibili capriole e assurdi stage diving per la conclusiva “The Magic Position”. Da antologia i vari intermezzi necessari ad incipriarsi il naso, il cambiamento di costume in scena (praticamente è rimasta in mutande, la pazza ) e la conclusiva presentazione dei fidi musici seguita alla sua di partita dal palco (quest’ultima fatta tra una piroetta e l’altra). Uno dei concerti per cui vale la pena essere drogato di musica.

Dopo Patrick c’è da preparare l’intervista a Karen Dreijer dei Knife, qui per il suo progetto solista Fever Ray, che ci hanno programmato alle 15.30 (e siccome qui non siamo in Italia, vuol dire proprio che dobbiamo stare lì alle 15.30, sennò ce la fanno saltare).

Il ritorno al palco Azalea ci regala due cose: una fastidiosa pioggia stile inglese ed un concerto sorprendente. Si tratta dei Vampire Weekend, band di sbarbatelli americani che in passato avevamo apprezzato solo per il potente singolo “A-Punk”. Grosso errore. Il live dei newyorkesi è infatti una delle cose più frizzanti viste negli ultimi tempi: canzoni non convenzionalmente pop da cantare e ballare di brutto e resa dal vivo della band decisamente sopra la media. Stima incondizionata, poi, per il look e l’attitudine dannatamente preppy del combo (giacche Henry Lloyd, camicie Ralph Lauren pastello, scarpe da barca, facce da bravi(ssimi) ragazzi e sorrisi dispensati a destra e manca). In una setlist che comprende praticamente tutti i pezzi del debutto, c’è spazio pure per un brano del nuovo album, che uscirà  a gennaio: molto simile a quelli vecchi e altrettanto convincente. Una volta tanto, forse, abbiamo trovato un gruppo pop destinato a durare.

Finito i VW, la pioggia continua a cadere in modo incessante. E fa pure freddo. Quindi scegliamo di ripararci sotto la tettoia del ristorante e, con l’occasione, farci uno spuntino. Dopo la mangiata al freddo e al gelo, si torna in zona Azalea, dove Nas è appena succeduto all’altro rapper Dead Prez. Ci piacciono parecchie cose black, ma “‘sto Nas su disco non ci era parso nulla di trascendentale. Dal vivo invece il tizio spacca di brutto, tanto che riesce a far convogliare migliaia di persone sotto il palco (e sotto la pioggia). Non male, rivalutato. From american nigga to african people: dopo Nas, sul palco di fronte, il Flamingo, l’eclettico programma del Way Out ci regala i menestrelli del Mali Amadou & Mariam. Entrambi non vedenti ed entrambi vestiti con gli abiti tradizionali della loro terra, i due vanno fortissimo: ballano e fomentano il pubblico, specie con la mezza hit “Welcome To Mali” e con la splendida “Sabali”. Su disco piuttosto noiosi alla lunga, live molto meno “‘impegnati’ e quindi più godibili.

Al calar del sole (si fa per dire), la pioggia scompare e sull’Azalea stage appare invece il duo Basement Jaxx. Che saranno pure autori di roba house molto tendente al radiofonico, ma sul palco ci sanno stare eccome. Coadiuvati da due soul sista con voci di tutto rispetto e da un altro paio di vocalist ““ che cambiano abiti di scena ad ogni pezzo -, i Jaxx fanno ballare lo Slottskogen alla grande, con un live che è praticamente la riproposizione di tutti i loro singoli: da “Romeo” (in versione acappella) a “Where’s Your Head At?”, da “Red Alert” a “Lucky Star”, da “Do Your Thing” alla nuova di zecca “Raindrops”. C’è spazio pure per una sorta di versione tamarro-house di “Seven Nation Army”. Spensierati, divertenti e super-catchy.

Dopo cotanto black sound ed headbanging elettronico, sentiamo l’esigenza di abbeverarci nuovamente alla marcissima fonte del Rock. A tal proposito, dunque, cade a pennello il concerto dei ritrovati Wolfmother sotto il tendone del Linnè Stage. Già  visti a apprezzati al Rock En Seine del 2006, gli australiani confermano ancora la loro formula hard rock, derivativa al mille per mille ma tuttavia efficace per gli amanti del genere. Non male, anche i nuovi pezzi ma, appunto, ad uso e consumo degli amanti del genere.

Dopo qualche pezzo, allora, sgusciamo via per andarci a gustare gli headliner di giornata, che si chiamano My Bloody Valentine, mica pizza e fichi. Arriviamo a concerto iniziato ma già  dai primi minuti capiamo l’andazzo: una caciare t-r-e-m-e-n-d-a, praticamente solo strumentale. Sì, perchè per scelta precisa del gruppo, le distorsioni devono sfondare i timpani al pubblico e quindi la voce diventa un optional. Sì, lo sappiamo che anche su disco la voce viene sommersa dal muro di feedback, ma c’è e si sente. Qui invece non si sente proprio nulla, nè la voce ma neppure gli accordi di chitarra. Si sente solo un casino assordante, pur stando a 100 metri dalle casse e pur avendo i tappi nelle orecchie. Se questa è l’idea di concerto che hanno i MBV, allora possono star sicuri che ai sottoscritti non li vedranno più (e pure a parecchia altra gente, da quanto ci è parso). Delusissimi, decidiamo di andarcene dopo una mezz’ora, salutando lo Slottskogen Park per andare a cena e chiudere il festival ancora al Tradgar Club con la doppietta US Gang Gang Dance ““ Deerhunter.

Stavolta al club c’è una fila terribile, cosa che ci fa benedire la scelta di perderci Lily Allen al parco per arrivare il prima possibile qui, visto che in tutti i locali del Festival, ovviamente, l’ingresso è limitato in base alla capienza del luogo. All’ingresso ci fanno mille problemi, sostenendo ““ verosimilmente da ciò che sembrava all’esterno ““ che il club fosse pieno, così per entrare siamo costretti a sfoggiare una cazzata inventata su due piedi: abbiamo un’intervista con i due gruppi, chiamaci il direttore del locale altrimenti sono cazzi. La presunta responsabile mette il muso ma ci fa entrare. E che scopriamo? Che la sala per i concerti è semivuota mentre è il resto del Tradgar ad essere stracolmo. All’interno di un’organizzazione pressochè perfetta, questa è una “‘magagna’ mica da poco, bisogna ammetterlo. Quindi se l’anno prossimo intendete andare al Way Out e pure al Tradgar, ricordatevi di arrivare prestissimo oppure di prepararvi cazzate convincenti da tirare fuori al momento giusto. Ciò detto, alla fine per entrare siamo entrati e ad accoglierci sono stati quegli eroinomani dei Gang Gang Dance, che nell’occasione hanno vista assegnarsi dai sottoscritti la palma del gruppo più fulminato dell’anno. Capitanati da una tipa di nome Lizzy, che sembra pugliese ma è di New York, il gruppo suona come una versione shoegaze di Liars, Animal Collective ultima versione, Celebration e roba affine. Più che canzoni, i Gang Gang Dance suonano un continuo flusso tribale, a volte cupissimo, diremmo banalmente post-industriale, altre volte colorato, Sempre drogatissimo. Quindi o ti lasci andare ed entri nel loro trip oppure ti rompi, presumiamo, le palle quasi subito. Noi ci siamo lasciati andare, complice anche l’oscuro personaggio in stile “‘freaks’ (basso, magro, mezzo storpio, di lineamenti indefinibili) che sul palco, per tutto il tempo, è rimasto di spalle, col cappuccio della felpa in testa sventolando, a mo di bandiera, una busta dell’immondizia. Detto così il live potrebbe sembrare una schifezza, invece per noi è stato uno dei più affascinanti del festival.

Più, di sicuro, di quello successivo dei Deerhunter, a cui certo non ha giovato chiudere, alle 2.30, la programmazione del Way Out West 2009, con buona parte dei presenti distrutti dalla stanchezza. I nostri partono bene, noi siamo in prima fila, beviamo Red Bull anche, per tirarci su, ma dopo qualche decina di minuti onestamente tutti i brani ci sembrano essere uguali gli uni agli altri, forgiati da un ampio sfoggio di tecnica ma con ben poca personalità . Comunque, lo ripetiamo, il nostro giudizio è inficiato dalla stanchezza, quindi non ci sentiamo di liquidarli come mediocri ma piuttosto preferiamo affibiargli un deciso “‘N.G.’ stile pagella della Gazzetta.

Terminati i Deerhunter, teoricamente, la serata al Tradgar prosegue con la musica dei (pessimi) Dj locali. Ma neppure l’altissima presenza di svedesi ubriache ci convince a restare: l’età  avanza e il clubbing, dopo 3 giorni 3 di Festival non fa per noi. Da veri italioti quali siamo, invece, ce ne andiamo a nanna, così da poter esser presenti, la mattina successiva, allo stadio Gamla Ullevi per la sfida al vertice del campionato svedese Fc Gothemburg- Elfsborg. Ovviamente, in Curva Sud. Ma questa è un’altra storia”…

 

thanx to Niklas Henrikson (Way Out West)

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VIDEO DELLA SERATA: