Ci sono varie opinioni discordanti su questo album.
C’è chi lo esalta e c’è chi è rimasto deluso.

In genere, dato un incipit del genere, segue sempre la massima di vita e di paraculaggine “la verità  sta nel mezzo”.
Ancora poi devo capire se sia colpa di Orazio o della Democrazia Cristiana ma sta di fatto che questa formuletta praticamente è diventata il maniglione antipatico di ogni discussione.
La verità  in questo caso non sta nel mezzo, tutt’altro.
Abbiamo un album che dà  segnali chiari e che arriva a delle conclusioni nette e sta all’ascoltatore cogliere da questo nocciolo incontestabile ed empirico le proprie consequenziali valutazioni.

Il percorso dei Moderat, la loro trilogia, delinea la storia di un’amalgama sempre più compatta ed omogenea.
La quadratura del cerchio tra l’anima più “delicata” ed onirica del gruppo incarnata da Apparat e quella più rumorosa e club-friendly dei Modeselektor è stata frutto di una lunghissima e dolorosissima procedura e di un decennio di mediazione tra due modi opposti di intendere la composizione.

Da questo punto di vista già  il precedessore, “II”, proponeva un’invidiabile bilanciamento tra i due cuori pulsanti. Impreziosito dal filo rosso della voce di Sascha Ring.
Del resto, quello che hanno proposto i Moderat è sempre stato qualcosa di diverso da quello che viene proposto ciclicamente dai vari super-gruppi, album di figurine, contenitori di carismi.
E’ una terza via, un modo di intendere il suono elettronico che è a se stante ed autosufficiente.
Insomma non è nè “ecco come Apparat suonerebbe i Modeselektor” o “toh, ascoltati questo Modeselektor feat. Apparat“.
Sono i Moderat che suonano loro stessi.

Con “III” questo comune denominatore tra i due suoni originali si fa ancora più radicalizzato e compatto.
L’album precedente viveva di picchi e di inerzie. Bombe a detonazione come “Bad Kingdom” a darsi il cambio con una manciata di brani innocui.
Qua invece si assiste ad un’opera di costruzione completamente diversa. Tutto alla pari, tutti in un grande cerchio, per guardarsi in faccia contemporaneamente.
Meno alti, meno bassi. Solo la lenta costruzione di un ambiente.
Un suono meno potente ed avvolgente e più riflessivo, come a voler stravolgere meno i muscoli ma più le emozioni.
Intento che si avverte già  dalla prima canzone ” Eating the Hooks”, che scorre lieve portandosi dietro strazio e alienazione su base elettronica, in quel mix di smorfie e suoni sintetici elevato negli ultimi anni da artisti come James Blake o Chet Faker.

Si procede con “Running”, che potrei sintetizzare in un “basta poco”.
Un tappeto di synth celestiale in loop e sopra la voce che scende e sale, traballa in un climax che finisce per travolgere.
Niente di più.

A seguire, il trittico di canzoni su cui poggiano tutte le altre.
“Ghostmother”, vera e propria punta di diamante dell’album, con il suo suono rotondo e completo.
Un’apertura lenta e sospirata, a riprendere le sonorità  di “Eating the Hooks” che si apre in un ritornello avvolgente ed, a suo modo, totale e paradigmatico come quello di una canzone pop ben riuscita, che come tutte le canzoni pop, ha il proprio cuore pulsante nel proprio ritornello.
Poi, i bassi che si scrollano tutto di dosso e procedono per qualche istante da soli, lasciando trasparire ruggine e tubi innocenti, per trasportarci ,in un’ultima fase rarefatta ed eterea.

“Reminder” è la seconda colonna su cui si distribuisce il peso massiccio dell’album: qua il ritmo è più sostenuto, ci si muove un po’.
Singolo di lancio dell’album, condivide il destino di “Bad Kingdom”, sia per la propria potenza, sia per il ruolo di apripista.
Ma, dove la canzone di lancio di “II” si fondava completamente su un basso implacabile e destrutturante, “Reminder” apre spazi nuovi per percussioni tribali e per intermezzi a pieni polmoni, ad arginare l’incidere claustrofobico che caratterizza il brano.
E’ meno decifrabile, meno diretta ma, una volta assimilata, più ricca.

A chiudere il trio di pezzoni abbiamo “The Fool” in cui viene premuto ancora di più sull’acceleratore.
Fasi di quiete si alternano ad intermezzi potenti, tormentati. Epici e quasi inopportuni, se inseriti in un ambiente emozionale ed, a suo modo, intimo come quello costruito all’interno dell’album.
E’ un ritorno ai contrasti originali, tra il sentimento ed il muscolo. Non necessariamente un passo indietro, piuttosto una gradita citazione di se stessi.

Il resto dei brani riprendono ed amplificano gli stessi temi ed il risultato è quello di un LP che nella sua lascivia è più pop che techno.
Da qui, da questo concreto ed oggettivo punto di arrivo nascono le diverse valutazioni sull’album.
C’è chi si aspettava più disordine, più forza. Reazioni ed esplosioni.

Poi c’è chi come me apprezza il lavoro di sintesi compiuto dai Moderat.
Scavando al nocciolo delle loro sonorità  sono riusciti a dar voce alla polpa viva del loro progetto attraverso un album che è musicalmente compiuto e sovrano.
Depurato, già  dal lavoro precedente, da qualsiasi collaborazione, vero e proprio escamotage di qualsiasi produttore e fumo negli occhi di ogni ascoltatore, “III” mette a nudo il fine reale e concreto dei tre: cioè, creare attraverso un suono elettronico ed universalmente riconoscibile, una finestra, un osservatorio sulle pulsioni umane.