Non era solo una questione di nome, dunque.

All’indomani dell’abbandono del monicker Viet Cong a seguito di una serie di polemiche online e offline legate ai significati “scomodi” celati in esso, i canadesi Matt Flegel, Mike Wallace, Scott Munro e Daniel Christiansen tornano dopo un periodo di disintegrazione della loro vita “pratica” e interiore. Stando ad alcune interviste interessanti apparse prima dell’uscita di questo nuovo album a nome Preoccupations, le vite dei quattro hanno subito nell’ultimo anno una serie di smottamenti, tumulti e riconfigurazioni che probabilmente avrebbero fermato, almeno per un po’, qualsiasi altra band.
Sul Bandcamp dei Preoccupations si legge di “vite ormai senza radici” e di un ritorno in studio dopo 200 concerti nel 2015 senza idee solide, ma solo con qualche appunto sparpagliato, a quanto pare. Probabilmente, tutti elementi messi lì nella bio per creare l’aura del disco “maledetto”, eppure questi mi sembrano “solamente” quattro tizi vagamente freakoidi, autenticamente interessati alla musica e a poco altro intorno ad essa.

Uno dei concerti citati lo abbiamo visto a Budapest, nel club A38, locale ricreato sopra un battello attraccato su una riva del Danubio. In realtà  la band suonava nel piano inferiore, credo a ridosso o in parte sotto il livello dell’acqua. Un concerto straniante, surreale, potentissimo, una delle cinque performance più intense che ho mai avuto modo di saggiare.

Difficilmente dimenticabile poi è e sarà  il disco dell’anno scorso, quando appunto il quartetto si faceva chiamare Viet Cong. Un album da alcuni giudicato passatista ma invece secondo noi pienamente piantato nel presente ma pure con uno sguardo al futuro.
Ed eccolo il futuro, con un altro pugno di tracce alcune brevissime (“Sense” e “Forbidden” durano tra il minuto e il minuto e mezzo circa) ed altre piacevolmente infinite (gli 11 minuti e passa della gloriosa “Memory”).
è evidentemente l’odore di sangue e ferite pulsanti quello che sale dai nove brani, ma anche il bisogno di nuovi spiragli di luce.

Rimane quel senso ipnotico di allucinazione controllata, le successioni mesmeriche e ossessive di intricati viluppi armonici che qui e là  sfociano in illusive aperture melodiche, mentre si acuisce la fascinazione per strutture ad orologeria e scariche di ritmi super-geometrici, a tracciare secanti claustrofobiche e plasmare spigolose ambientazioni noir-distopiche. Come successo negli ultimi anni a molte altre band, soprattutto nel “genere”, qui troviamo uno studio più approfondito, rispetto al passato, sui synth, si veda come esempio per tutti una conclusiva “Fever” con i suoi ricami tastieristici reiterati capaci di allestire glaciali arredamenti robotico-urbani.

Giganteschi episodi come l’elegantemente selvaggia “Zodiac”, il post-punk “monumentale” di “Monotony”, “Memory” con il featuring vocale fondamentale di Dan Boeckner dei connazionali Wolf Parade, contribuiscono a cesellare un’opera che ancora una volta vince e avvince. Quest’ultimo brano poi è un caso interessante perchè in realtà  è tre pezzi in contrapposizione raccolti in uno, come un viaggio introspettivo/grottesco che attraversa gli scenari inquietanti di “Eraserhead” così come gli scantinati hipsteroidi del degrado urbano “milleniale”, che testimonia, aggiungiamo, l’incontrollabile voglia dei Preoccupations di spingersi oltre: partenza con andatura psych stralunata, parte centrale luminescente che porge la mano a tutto il buono dell’indie-rock degli ultimi tre lustri, catartico finale rumoristico-ambientale che ti getta in un abisso/limbo di imperturbabili oscillazioni di detriti ultratecnologici e vibrazioni ancestrali, come echi galleggianti di sogni infranti e fette di coscienza dissezionata a baluginare in un orizzonte che si dissolve al ralenti.
Il linguaggio glaciale della band, ora affidato ad un crooning più tenebroso e inquieto, qui si fa più doloroso, come se nel precedente album fossero state raccolte disperate cronache cacotopiche osservate dall’esterno, mentre invece qui la situazione è vista da un punto di osservazione sempre alienante ma un po’ più interiorizzante, includente, vulnerabile.

Per una questione diciamo “strutturale”, il suono dei Preoccupations, coi suoi impliciti rimandi e cruci incroci a base di Interpol, Sonic Youth, Wire, This Heat, feel indie canadese e rumorismi distopici assortiti, nel 2016 non potrà  mai essere così “hype”. Troppo eleganti per i “mostri” del rock alternativo a ridosso del noise, troppo mostruosi per quegli alfieri di un suono indie nella sua variante più oscura e fredda.
Sarà  per questo che qualcuno li ha definiti “post-punk antagonists”. E a noi piacciono esattamente (ma non solo) proprio per questo loro stare ai margini, nel loro affascinante limbo post-apocalittico.