Dal paese nel quale il rock è un valore aggiunto, indistinto per uomini e donne, la chiamata è arrivata. Da Londra bisogna tagliare trasversalmente la campagna inglese per raggiungere la contea del Somerset. A Minehead per tre lunghi giorni c’è il più grande raduno d’Europa per i fanatici del sound di Manchester, per gli sciacalli del baggy, per gli adepti del Britpop. è lo “Shiiine On Weekender” e dobbiamo andare.
Sull’orlo europeo dell’Atlantico c’è un resort di nome Butlins che accoglie centinatia di inglesi della working class svezzati tra cultura hooligans e rock’n’roll. Piscine, pub, palazzetti e alloggi dei quali non è possibile ad occhio nudo scovare il perimetro fanno costeggiano il lungomare situato aldilà  di un attraversamento pedonale.

In questo posto c’è gente che da celebrità  è passata all’anonimato, da professionisti a dilettanti, dall’aver contribuito a creare una scena a dover rispolverare i propri strumenti a corde e pelli dopo vent’anni.
Il meglio della partita per il miglior revival si gioca tra le città  di Liverpool e Manchester dalle quali provengono gran parte dei gruppi. Dall’afflusso per il primo set alle 14:00 del venerdì si definisce invece la figura dell’astante medio. Frange lunghe e caschetti spuntano da una flotta di parka verdi. Ciascuno di essi avrà  perennemente in mano boccali di birra ( Se non addirittura caraffe) dai quali attingere la carica quotidiana aggiungendo sostanze poco convenzionali.
I The Highs inaugurano lo Skyline Stage ovvero il palco principale del festival. è la formazione più adatta per il warm up del pubblico anche grazie a un repertorio incentrato sulla melodia che disimpegna da movenze stravaganti.

A trent’anni dalla loro formazione, gli House of Love di Guy Chadwick decollano verso una performance a dir poco perfetta. I loro brani sono raffinato pop interrotto saltuariamente da iniezioni di durezza del geniale chitarrista Terry Bickers. Gli House of Love hanno fatto parte per breve tempo della scuderia Creation grazie alla visibilissima influenza dei The Jesus and Mary Chain.
I Wonder Stuff sono roba incredibile, meravigliosa per davvero e ce ne rendiamo conto inaspettatamente dall’accoglienza riservata loro nell’istante in cui salgono sul palco. Miles Hunt è un treno in corsa senza nessuna intenzione di fermarsi al termine di ogni pezzo. à‰ il guru e direttore della numerosa orchestra che si è portato dietro. La presenza al suo fianco della violinista Erica Nockalls, in formazione soltanto dal 2005, dona alla band un aspetto positivamente folk. E canzone dopo canzone il pubblico non vede l’ora che arrivi la successiva.
L’headline del venerdì è affidato agli Echo & the Bunnymen che permettono al pubblico di rilassarsi fisicamente ma non emotivamente. Il sempre divo Ian McCulloch, la cui aurea lugubre ha travolto diversi esponenti della scena britpop, primo fra tutti Liam Gallagher, si presenta al solito in impermeabile ed occhiali scuri degni della sua formazione dark adolescienziale. Hit strepitosi quali “The Killing Moon” e “Nothing Lasts Forever” non lasciano scampo ma anche la cover dei Doors “Roadhouse Blues” impressiona positivamente chi resta incantato nell’ascoltarli.

Il set del sabato comincia ad essere degno di nota intorno alle 16:00, quando all’interno del pub Inn On The Green i Real People accendono i loro amplificatori. Quando i Gallagher hanno iniziato a fare dischi, i fratelli Griffiths erano già  in pensione. E a questi ultimi gli Oasis devono per intero Definily Maybe. Ma questa è un’altra storia e Tony e Chris preferiscono far parlare i loro strumenti piuttosto che rispolverare i ricordi. Tanti i brani del loro album freschissimo di stampa “Monday Morning Breakdown” oltre a diverse chicche tratte dalle uniche due produzioni degli anni novanta. Far suonare i Realies in un pub è stata la più grande ingiustizia della manifestazione. Lo staff dovrebbe spiegare quale criterio abbia usato per dare più o meno spazio alle band.
Ma quasi contemporaneamente nello Skyline Stage arrivano i Dodgy di Nigel Clark. Sono passati circa vent’anni dalle loro cose più celebri ma il (poco attualmente) power trio sembra invecchiare malissimo. Il loro recentissimo “What Are We Fighting For” sembra però aver ridato loro ossigeno. Peccato che il loro show sia stato sporcato dalla pessima fuoriuscita del suono della sezione ritmica.
Tra le band fresche di prima stampa ci sono i londinesi Sulk. Con loro il British-indie dai contorni psichedelici torna di moda. Dal vivo Jon Sutcliffe non fa che rendere omaggio contemporaneamente a Mick Jagger e Tim Burgess. Tra le cose migliori dei loro due album non mancano i portentosi singoli “Back in Bloom” e “No Illusions.”

Dalle 19:30 non si parla d’altro che dei Bluetones di quell’elegantone di Mark Morriss. Probabilmente l’unico gruppo britpop presente alla tre giorni che ha sempre fatto costantemente dischi dal 1996, anno del loro debutto discografico nonchè della loro miglior produzione. I Bluetones sono i romantici dagli accordi colti, gli aristocratici del pop per i palati fini. La voce magnetica del leader che gioca a fare il divo trascina il pubblico nelle esecuzioni di “Slight Return”, “Bluetonic” e “Are You Blue Or Are You Blind?”
Gli Shed Seven chiudono la giornata sul palco dei big e si prendono tutta al gloria del festival.. Già  dal mattino il loro soundcheck aveva fatto presagire la succulenta presenza di un ensemble di fiati sul palco. Qualcosa di grande sarebbe successo quella sera. Difatti il loro arrivo è un trionfo e il loro set ancor di più. Durante “Going For Gold” e “Chasing Rainbows” cantano tutti, davanti e ai lati del palco. Cantano gli addetti alla sicurezza, i camerieri dei locali adiacenti l’area del concerto e persino quelli dell’impresa di pulizia dei bagni. Witter nel frattempo non risparmia battute taglienti mentre scherza con il pubblico, affrontando tutti a muso duro come fosse un bullo alle scuole medie.

La domenica si apre con il mattutino party in piscina capitanato da Bez, l’ex entertainer degli Happy Mondays. E non c’è verso di rilassarsi perchè il dj set non lesina tutti quei pezzi che hanno fatto grande la musica inglese degli anni novanta.
Tornando alla musica suonata abbiamo i The Stairs che dal primo pezzo riportano alla mente i moderni Coral ai quali hanno dato il pane. Il loro R&B mescolato con il folk pop è qualcosa che un quarto di secolo fa nessuno osava. “Mary Joanna” e “Weed Bus” ne sono il miglior risultato. Le corde vocali del bassista Edgar “Summertymes” Jones sembrano prestategli da Van Morrison in persona quando affronta Gloria.
Seguono i Jesus Jones con il loro tastierista disorientato e poco divertente. Il loro momento più alto è chiaramente l’esecuzione della hit da classifica “Right Here Right Now” dal loro secondo album “Doubt”.
Con i The Farm e gli Ash tutto cambia. Due pesi due misure. I primi si infilano perfettamente tra le costole degli Happy Mondays e le gambe dei Primal Scream avviati, attraverso gli intoccabili “Groovy Train” e “All Together Now”. Con il trio nord irlandese invece l’atmosfera si indurisce parecchio e questo è risultato poco in linea con i canoni melodici della rassegna. Gli Ash continuano nella promozione di “Kablammo!” del 2015 ma non incarnano più il team da classifica come ai tempi di “1977”.

Con la filialità  alla black music dei Black Grape si ferma tutto e tutti si fermano. Con soli due dischi all’attivo di cui l’ultimo pubblicato quasi vent’anni fa il pubblico subisce uno scossone. Ed è sufficiente aprire con “In the Name of the Father” per permettere ai Grape di prendere il sopravvento. Il rapper Carl McCarthy tira le file guidando tutto il concerto. Shaun Ryder sembra non farcela e tuttavia da solo esalta la popolarità  dell’ensemble nei riguardi dell’audience.

I Cast sono l’orgoglio di Liverpool e ultimi headliner dell’evento. John Power in attività  dai tempi dei La’s mostra ancora una volta di essersi costruito una band eccellente al punto da riuscire a strattonare dalle classifiche ossi duri come Oasis e Radiohead in tempi non sospetti. Tra un sorso di Jack Daniels e un tocco alla medusa che si porta sulla testa, Power sfila singoli a raffica deliziando la platea che nel frattempo si era ingigantita. “Alright”, “Free Me”, “Walk Away” e “Fine Time” tra i singoli più attesi. Solo quattro italiani presenti a Butlins e non potevamo chiedere finale migliore.