Impossibile non partire dalle parole stesse di Kelcey Ayer (leader dei Local Natives) che descrive questo suo progetto solista in un modo molto chiaro:”the dark piano ballad record that I’ve always wanted to make“. Questo ci serve per inquadrare fin da subito il disco di Jaws Of Love, staccandolo dai suoni della sua band principale, per entrare in un mood più oscuro e malinconico, come spesso accade quando si parla d’amore, delle sue complessità  e degli intoppi emotivi che ne derivano. Si, perchè la partenza è ancora una volta l’amore, o meglio, quello che scaturisce, nel bene e sopratutto nel male, nelle relazioni, anche in quelle belle, chiare, limpide, anche in quelle si può annidare un ‘bug’ ed è di questo che, nel suo album, parla Kelcey: relazioni e dipendenze fre persone.

I riferimenti musicali potrebbero essere citati in Bon Iver, James Blake e perchè no, anche i Coldplay meno sbruffoni e colorati, ma lo dico giusto per inquadrare il tutto, quello che conta è che, partendo dal classico piano/voce, Kelcey sviluppa il suo personalissimo sentire introspettivo, ampliando lo spettro sonoro e  gli orizzonti musicali, giocando sottilmente con l’elettronica minimalista e con altri arrangiamenti tutt’altro che invasivi (ma comunque ben presenti e chiari) per condurci completamente nel suo mondo, non da spettatori disinteressati ma con il livello di empatia decisamente alto e consapevole.

“Jaws Of Love” è magnifica apertura: quella che sembra una semplice ballata al piano diventa poi gloomy-pop, con questa ritmica incalzante e i synth, quasi fossimo in territori ‘sophistipop’ anni ’80. Un brano magnifico che segna letteralmente la via che andremo a percorrere. Incantevoli dilatazioni in “Microwaves” che sembra dischiudere un paesaggio da pelle d’oca davanti   a noi, che incantati lo guardiamo, prima che quel magnifico sax di “Everithing” si disveli essere la punta finale di un climax ascendente che ci ha catturato passo dopo passo, senza che nemmeno noi ce ne accorgessimo. Il finale apre di più le porte alla voglia di sperimentare e ci riserva perle una in fila all’altra, dalla fragilità  acustica disarmante di “Love Me Like I’m Gone”, all’andamento morbido, notturno e melodico (alla Four Tet) di “Before the Hurting Lands”, passando per i vocalizzi reiterati di “Costa Rica” che si apre, dolcissima e struggente, con la frase ““Why don’t you believe me when I say I love you?”   e la chiusura di “Nightlight” che pare un incrocio tra Coldplay e Radiohead con uno spirito barocco, roba sopraffina veramente.

Non fermatevi ai primi ascolti, andate a fondo di una simile perla sonora e fatelo entrare sempre di più nei vostri ascolti quotidiani, sarà  il cuore a ringraziarvi. Magnifico.