Il nuovo disco di Martin Carr (“New Shapes Of Life”, leggi la nostra recensione) ci da un assist a dir poco esemplare per andare in rete. Non ci lasciamo sfuggire quindi l’occasione per celebrare il suo passato con i fondamentali Boo Radleys, andando a pescare, in ordine cronologico e senza velleità  di classificarli, 10 brani, e questo perchè in 10 anni di attività  i ragazzi di Wallasey (guidati da Simon “Sice” Rowbottom alla voce e, appunto, Martin Carr chitarrista e autore dei brani) hanno dimostrato che si può fare guitar-pop in modo intelligente, sperimentando e azzardando, senza perdere mai il gusto della melodia perfetta.

Does This Hurt?

Tortoiseshell

1992, dal disco “Everything’s Alright Forever”

Partire dal 1992 per raccontare i Boo Radleys vuol dire saltare a piè pari il loro rumoroso esordio “Ichabod and I” del 1990 (uscito per Action Records), in cui i nostri seguono le orme soniche di eroi come Jesus And Mary Chain o Dinosaur Jr, andando giù pesante con il noise. Punto di partenza acerbo, certo, e per questo noi non pescheremo nessun brano, ma segnale importante di come i nostri guardassero con attenzione anche alle scena shoegaze, rimanendone sicuramente influenzati. La cosa si nota infatti nel pregevole secondo disco “Everything’s Alright Forever”, primo per Creation Records, e decisamente ricco di chitarre riverberate e spazi più dilatati rispetto a profumi power-noise-pop ruvidi e carichi. Martin Carr sta già  sviluppando una scrittura assolutamente pregevole, certo, con una personalità  ancora in via di sviluppo, ma gli spunti e le particolarità  vincenti ci sono eccome, basti pensare a quella tromba meravigliosa che fa capolino in “Spaniard”, tanto per fare un esempio, in cui il titolo ci rimanda proprio a profumi realmente spagnoli. Chitarre e melodie tipicamente primi anni ’90 sono esemplificati da “Does This Hurt?”, in cui i nostri non fanno mistero di mostrare le loro influenze soniche. Da notare come sempre nel 1992 esca anche “Learning To Walk”, compilation dei primi tre EP della band (“Kaleidoscope” (1990), “Every Heaven” (1991) and “Boo! Up” (1991), pubblicata dalla Rough Trade Records, in cui si esemplificava il passaggio a sonorità  più eteree vicino al gusto dei MBV, come si noterà  appunto nel secondo album ufficiale. Proprio da questa raccolta andiamo a sentire la sonica “Tortoiseshell”, che pare proprio uscire dal repertorio di Kevin Shields e soci.

I Hang Suspended

Upon 9th and Fairchild

1993, dal disco “Giant Steps”

Il disco della svolta, l’album che ti fa entrare dritto nella storia del pop made in UK. I Boo Radleys trovano l’ispirazione massima e la loro vetta con quel lavoro superbo che risponde al nome di “Giant Steps”. Le fascinazioni shoegaze piano piano si amalgano con mille altre influenze per creare qualcosa di unico e invitante. Dub, psichedelia, guitar-pop cristallino, reggae, cori e armonie vocali, Love, Beach Boys, trasognanti visioni ’60 e i fiati: non manca nulla a un disco che potrebbe sembrare pretenzioso e invece è pienamente consapevole del proprio potenziale, mettendolo in mostra senza vanteria o pomposità , ma con la fierezza sincera di chi si accorge di avere fra le mani un tesoro d’inestimabile valore e lo vuole condividere. Lascerò da parte la famosissima “Lazarus”, visionaria e vero e proprio viaggio popedelico, per concentrarmi su altre due canzoni: la traccia “I Hang Suspended” che apre in modo trionfale il disco, con quel suo giro di chitarra micidiale e con Sice inizia a dimostrare sempre di più di avere una voce versatile e armoniosa e poi “Upon 9th and Fairchild”, gioiellino dub con basso e andamento reggae, che poi lascia la porta aperta alla chitarra distorta e al ritmo che aumenta furioso. Vero e proprio esempio della versatilità  dei nostri!

Reaching Out from Here

Wake Up Boo

1995, dal disco “Wake Up!”

Il botto in classifica i Boo Radleys lo fanno in pieno brit-pop con un disco che ne riassume tutte le caratteristiche: freschezza, entusiasmo, vitalità , melodie che entrano dritte in testa: “Wake Up!” è la sublimazione melodica e armoniosa del concetto di pop di Martin Carr, che spinge al massimo sul lato più accattivante della sua proposta, senza però dimentare chi è e in che band si trova. Sperimentazione decisamente contenuta, ma va benissimo così: i Boo dimostrano di fare un po’ quello che vogliono, seguono la corrente del momento ma non si snaturano di certo, magari si semplificano un po’, ma sempre con eleganza e grande classe. Una canzone come “Wake Up Boo!” poi sembra fatta apposta per far perdere la testa a tutti e il primo posto dell’album arriva inevitabile. Un vero e proprio giro in giostra colorato e ricco di emozioni questo disco, con i fiati che quando fanno capolino diventano marchio di fabbrica della band. Per rappresentare questo disco vado con la magnifica ballata “Reaching Out from Here”, in cui Martin mette in campo la variante della semplicità  e dell’mmediatezza guitar-pop e poi ovviamente il singolo trainante del disco, quella “Wake Up Boo” che diventa vero e proprio inno.

What’s in the box?

C’mon Kids

1996, dal disco “C’mon Kids”

Nel 1996 esce “C’mon Kids”, vera e propria risposta emotiva, oltre che sonora, all’indigestione di notorietà  del disco precedente. I Boo tornano ad essere fuori dagli schemi e non si pongono limiti. Se ne fregano di trovare il singolone e vanno a scegliere alcune vie anche tortuose e sperimentali, eppure nello stesso tempo ricche di fascino e suggestione e per noi che amiamo questi Boo così intraprendenti è una manna dal cielo. Ovvio che la risposta del pubblico è più fredda e il primo posto in classifica non sarà  neanche più sfiorato, ma i nostri se ne fregano. Da “C’mon Kids”, giusto per dimostrare che la musica è cambiata ecco “What’s in the box?”, carica di chitarroni esplosivi e poi la canzone che da il titolo all’album con quelle chitarre shoegaze iniziali e poi i nostri che vanno giù a testa bassa, senza però dimenticare nemmeno peer un attimo la melodia. Due brani pazzeschi. Null’altro da aggiungere.

Kingsize

Comb Your Hair

1998, dal disco “Kingsize”

La voglia di non fermarsi e di non sedersi sugli allori non s’interrompe mai per i Boo. “Kingsize” (1998, da li a poco la band si scioglierà ) è un’uscita un po’ troppo bistrattata da critica e forse anche da qualche fan, ma invece è ricca di ottime trovate e della solita voglia di mettere tanta carne al fuoco, ottimamente cotta tra l’altro, con dei brani che anche a distanza di anni mescolano classicismo e voglia di andare oltre, per metterci il marchio di fabbrica del gruppo. Martin Carr si dimostra autore versatile e fantasioso e la band gira sempre alla grande, ma c’è da dire che ad anticipare l’album non ci sarebbe dovuta essere “Free Huey”, ma questa “Kingsize” così morbida, accogliente e pop (che fosse uscita dalla penna di un certo Noel non ci sarebbe neanche nulla da obiettare e probabilmente ne avremmo parlato per un bel pezzo) avrebbe fatto sicuramente meglio il lavoro di biglietto da visita. Per rappresentare al meglio “Kingsize” andiamo anche a presentare la deliziosa “Comb Your Hair”, dal ritornello a presa rapidissima. Altro gioiellino fin troppo sottovalutato.