Credit: Holly Andres

Era dal 2018 che non ascoltavamo musica nuova dai Decemberists, ma, per fortuna, la creatura di Colin Meloy ha rotto il silenzio con l’annuncio del nuovo album (e un lunghissimo singolo anticipatore). Adesso è certamente il caso di rivivere le fasi migliori della ventennale carriera della band dell’Oregon. Certamente, per via della varietà contenuta nel repertorio del gruppo e anche della particolare connessione emotiva che i Decemberists sono in grado di stabilire con chi li ascolta, il giudizio su quali siano queste fasi migliori sono influenzati più del solito da fattori puramente soggettivi. Per cui, ho dedicato il 70% della top 10 ai primi tre dischi, e ho escluso del tutto “The Hazards Of Love” e “The King Is Dead” proprio a causa del legame che ho stabilito, soggettivamente, con questi lavori, che, quindi, è incredibilmente forte per i primi tre e inesistente per gli altri due citati. In ogni caso, mi dispiace se sono stato troppo autoreferenziale, ma penso di poter affermare che la qualità delle canzoni che ho scelto è alta.

10. I’ll be your girl
2018, da “I’ll be your girl”

L’ultimo disco dei Decembeists è dichiaratamente ispirato all’avvenuta elezione di Trump a Presidente degli Stati Uniti nel 2016, e si chiude proprio con questa title track morbida e coinvolgente. Tenendo conto che, a quanto pare, alla fine del 2024 rischieremo che avvenga di nuovo la stessa follia, è indubbiamente il caso di riascoltare questa bellissima canzone e fare proprio il suo messaggio, secondo cui, anche nei momenti più difficili, c’è sempre una persona a cui possiamo appoggiarci per stare meglio. Ne avremo bisogno.

9. The singer addresses his audience
2015, da “What a terrible world, what a beautiful world

Ci ero rimasto male quando “The King Is Dead” non mi era piaciuto, perché, se per il precedente “The Hazards Of Love” era facile capirne il motivo, ovvero il fatto che fosse un disco troppo cervellotico e per nulla spontaneo, con quell’album i Decemberists erano tornati a fare quello che avevo sempre apprezzato nella loro proposta, ma stavolta non funzionava. Fu, quindi, un grande sollievo ritrovarli finalmente in forma, sia su disco che nel pazzesco concerto dei Magazzini Generali, che, ancora oggi, ricordo come uno di quelli che, in assoluto, mi ha scatenato più subbuglio emozionale. Tutto questo per dire che, da questo disco, non potevo che scegliere questo brano di apertura, sia per il riferimento all’aspetto live, sia per come mi ha fatto subito ristabilire il collegamento coi Decemberists, che sembrava ormai perduto. Del resto, l’intensità con cui Colin canta la canzone non poteva che sortire questo effetto su di me, e lo stesso vale per le scelte in termini di armonie vocali e accompagnamento musicale, tutte semplici, ma mai banali, e funzionali alla valorizzazione dello scheletro del brano, con quel crescendo finale che mi ha fatto dire in via definitiva “finalmente, rieccoli!“.

8. O Valencia!
2006, da “The crane wife”

Ho un rapporto ambivalente con “The Crane Wife”. All’uscita, mi era piaciuto molto, e anche la trasferta bolognese per l’affollatissimo concerto dell’Estragon era stata splendida. Ma poi, penso che, senza questo disco, non ci sarebbe stato il successivo, che, come detto, aveva rischiato di farmi disamorare di una band così importante per me. In definitiva, ho deciso di scegliere il brano più pop e immediato del disco, quello che non ne rappresenta quasi per niente la natura complessiva, ma più di una non ne volevo prendere, e questa non la potevo lasciare fuori perché è certamente bella e coinvolgente, e poi a Valencia ho fatto il mio viaggio di nozze.

7. Los Angeles, I’m yours
2003, da “Her Majesty The Decemberists”

Entriamo, quindi, nel magico quadriennio 2002 – 2005, senza che ne usciremo più, e paghiamo il doveroso tributo a tre dischi assolutamente meravigliosi. Iniziamo da questo brano capace di trovare un perfetto connubio tra il lato più scanzonato del repertorio dei Decemberists e quello più introspettivo e malinconico. I due aspetti convivono a meraviglia in una canzone avvolgente, che cattura l’attenzione dell’ascoltatore e non la molla più, provocando certamente riflessioni e sospiri in quantità, perché abbiamo tutti quel posto, fisico e/o metaforico, per il quale guardiamo con benevolenza anche i suoi evidenti difetti, perché in fondo è un posto al quale apparteniamo.

6. The sporting life
2005, da “Picaresque”

Proseguiamo con il ritmo irresistibile di questo brano, reso ancora più coinvolgente dal modo in cui la melodia vocale di Colin non gli va perfettamente dietro, ma crea una piccola crepa nella sincronia metrica che però si sistema con naturalezza già dal bridge e fa sì che la scorrevolezza del ritornello venga ulteriormente spinta. Il tutto con chitarre e tastiere che entrano e escono sempre nei momenti giusti e un’espressività vocale straordinaria. Il testo colmo di frustrazione, poi, è un perfetto abbinamento “per contrasto” rispetto alla serenità che trasmette la musica, per una canzone certamente su un livello qualitativo superiore.

5. Odalisque
2002, da “Castaways and cutouts”

Ho una predilezione per il lato epico e addolorato della proposta dei Decemberists, e quindi non potevo certo escludere questa canzone dalla classifica. Il suo inizio morbido ma intenso fa subito capire che ci troviamo al cospetto di una storia difficile, poi l’improvvisa accelerazione con innalzamento dei toni ci catapulta nell’angoscia, ma senza farci venir voglia di scappare da essa, perché la rotondità melodica e vocale rende il tutto di facilissimo ascolto, e quindi rimaniamo lì, in un racconto surreale di cui non capiamo compiutamente il significato, ma ci rediamo conto che ci sono serie difficoltà dalle quali non si riesce a uscire. Un brano confezionato con un’abilità fuori dall’ordinario e che certamente è in grado di lasciare un segno su chiunque lo ascolti.

4. The bachelor and the bride
2003, da “Her Majesty The Decemberists”

Qui si soffre, senza compromessi, senza sconti, senza che la pillola venga indorata in alcun modo. Però, allo stesso tempo, si vola altissimi, perché questa canzone ha tutto per farcelo fare: una melodia clamorosa, un accompagnamento musicale impeccabile, una voce, come capitava sempre in quegli anni, unica e coinvolgente, in grado proprio di far provare all’ascoltatore le sensazioni legate a ciò che sta cantando. E quindi, ascoltiamo e interiorizziamo la brutale metafora del promesso sposo che lascia la propria donna poco prima delle nozze, e soffriamo, come detto, perché le immagini scelte da Colin sono indubbiamente forti. Ma, allo stesso tempo, amiamo una canzone la cui bellezza è indiscutibile.

3. The engine driver
2005, da “Picaresque”

L’autocoscienza può essere importante per la salute mentale. Mettere in parole, senza compromessi, il cattivo stato in cui siamo, può servire per sapere da dove partire per trovare la strada che ci faccia stare meglio. Questa canzone, e quella successiva, sono due dei migliori esempi in tal senso. Qui, Colin non si fa problemi a mettere in chiaro che sa di avere certi pregi, ma se poi questi non servono, e lo fanno stare male, anche solo per motivi fuori dal suo controllo, allora probabilmente essi non hanno molta utilità, e quindi non deve per forza rimanere aggrappato a essi. Tutto questo lo fa con il consueto livello siderale di melodia, interpretazione vocale e scelte a livello di arrangiamento.

2. Here I dreamt I was an architect
2002, da “Castaways and cutouts”

Qui non ci sono pregi, non c’è destino avverso, ma ci sono solo frustrazione, sogni spezzati e inadeguatezza. C’è l’ammissione, senza alcuna remora, di voler essere ciò che non si è in grado di essere, e di non avere idea di come cambiare le cose, e quindi forse è meglio adeguarsi e accettare chi siamo. È difficile doversi rassegnare così, ma probabilmente è necessario. È un ascolto particolarmente catartico, anche perché non solo ci sono tutti i pregi sopra menzionati, che ormai non è più il caso di ripetere, a questo punto, ma l’efficacia delle scelte, a tutti i livelli, è davvero fuori dal comune, e veramente viviamo ciò che Colin canta come se riguardasse noi.

1. We both go down together
2005, da “Picaresque”

Ecco, se proprio dobbiamo affondare, facciamolo insieme. Se l’unico modo per stare bene è fare qualcosa di cui poi pagheremo caro le conseguenze, facciamolo lo stesso, perché sappiamo che dopo staremo male, ma almeno in quel momento avremo vissuto veramente. Questa canzone rappresenta come meglio non si potrebbe questo stato di cose, con la nitidezza della melodia principale e delle linee di archi che la accompagnano e, allo stesso tempo, un cantato e una tonalità sonora che danno il giusto tocco di inquietudine. Ma alla fine si va, senza rimpianti, ci si butta nel piacere, o comunque in ciò che vogliamo più di ogni altra cosa, e se poi da questa altezza precipiteremo e ci faremo malissimo, fa niente, almeno abbiamo volato.