Ho sempre un po’ di timore reverenziale quando devo approcciarmi alla storia dei Fugazi , una malcelata paura sull’incapacità  dello scrivente di riuscire plasticamente a proiettare nel lettore un senso, anche parziale volendo, di quanto importante sia stata questa band, tanto che questa sensazione di difficoltà  si mischia probabilmente al rimpianto, mio ma di tutta una generazione di ventenni d’epoca, di non aver visto decollare un progetto, un’entità  siffatta oltre la sua valenza artistica, un qualcosa di unico nel suo genere almeno nel decennio dei 90, che aveva a che fare con una spinta generazionale indissolubilmente creata ad un’idea di futuro, di consapevolezza presente nella gestione dell’everyday life: insomma, quella scena DIY, della libertà  creativa elevata senza ancore e senza coperture mediatiche, il crisma della democraticità  dell’atto artistico e del potere quindi della scelta, che nasce e si cementa con le canzoni e le turbolente esibizioni dal vivo del quartetto di Washington dovrebbe essere stata per noi quella che forse avrebbe dovuto guidarci sempre come spirito nel modo di affrontare le nostre scelte, nel modo di porci nei rapporti interpersonali, la lampadina sempre accesa sul rispetto per gli altri e sulle proprie convinzioni. Non era solo   una questione di controllo, prezzi calmierati e cose così, era il reciproco rispetto, sapere che là  fuori c’era una massa che aveva bisogno di purezza  e vicinanza, di familiarità  ma anche di rock’roll e per una decina di anni i Fugazi sono quasi incredibilmente riusciti a mantenere questa linea di azione, inamovibili rispetto ad esempio all’evolversi di un sistema di rendite del mercato discografico che paradossalmente in quegli anni nutriva sempre più pretese dal mondo indie, vedasi lo shock Nirvana.

“Steady diet of nothing” è il loro secondo album, dura 36 minuti, dentro ci sono 11 canzoni, non c’è una pausa, è compatto e solido anche più di “Repeater”, pur non contenendo una vera hit, ma la tensione dura ogni secondo dei pochi minuti   che lo compongono, sembra scritto, suonato e sputato fuori anche in minor tempo, canzoni tese e vibranti che raccolgono le due anime della band. quella più urlata e direttamente riconducibile ai Minor Threat di Mac Kaye  e quella più ibridata e ritmica di Picciotto, le chitarre sono dei rasoi che lacerano il nostro senso del tempo, che ci aprono una adrenalinica finestra sul nostro infinito presente ogni qualvolta mettiamo sulla playlist cose come “Reclamation” o “Nice new outfit”: bastano 2,3 secondi per catapultarci nel loro mondo, anche se fossimo a Mazara del Vallo o più spesso persi nei nostri anonimi loculi lavorativi, per tornare a vivere l’ebbrezza di un immaginario lontano ma sempre così facilmente risvegliabile fatto di emozioni vere, antropologicamente così pure che, la dico così, solo l’hardcore suonato in questo modo può far rivivere in modo così forte e coinvolgente. Ma musicalmente non è solo questo, la contaminazione evidenziata dal drumming ritmico che prende dal post funk e dal hip pop porta l’hardcore dei Fugazi su territori ancora più scoscesi ed inconsueti per le band di questo genere dell’epoca, ad esempio i Jesus Lizards, aumentando ancor di più la forza dei brani che pur dotati di strutture molto semplici esplodono   nel loro pur breve minutaggio.

Bastano 2,3 secondi dello splendido coro di “Latin roots” per farci capire la potenza, l’amalgama, la bellezza di una band ineguagliabile, per vedere riflessi nei nostri corpi, nelle nostre azioni, nello stretta durata di una canzone, questa energia di un fermento sempre vivo ed attuale, che resta, al di là  deli rimpianti, per aver colto e poter sempre vantare, ogni volta che serve, ogni volta che veniamo schiacciati dal torpore quotidiano, di quel brivido vitale, scintille di quel senso di sanissima ribellione contro lo status quo, della fierezza dell’appartenenza indie, che ci risolleva, ci distingue e ci permette di incidere sulle nostra volontà , di non essere sopraffatti dalle consuetudini e stereotipi.

“Steady diet of nothing”, il precedente e i successivi lavori, compresi quelli della naturale evoluzione dei Fugazi e a torto considerati qualitativamente inferiori,   hanno significato tutto questo e ovviamente molto di più di questo ed è abbastanza logico che in Italia le vendite e il loro successo furono palesemente inferiori alla portata del loro messaggio, vista l’annoso ritardo di acquiescenza dei movimenti eversivi, in un periodo tra l’altro in cui il grunge spopolava (per fortuna!) e di sponda tutto il rock viveva forse la sua ultima stagione di rinnovamento; quel che omaggiarli ribadendo   che sono stati il gruppo più sottovalutato degli ultimi 30 anni è anche poco, anche se probabilmente sarebbe solo una questione di onore per Mac Kaye & C., perchè i loro dischi sono ancora lì impattanti come prima, di una pulizia formale anche inalterata, per niente datati ma con quella miscela esplosiva che anche oggi dovrebbe far saltare sulla sedia intere file di giovani e non solo, pronti alla scoperta, all’eversione necessaria del non allineamento, alla lungimiranza esclusiva e forte della propria volontà , con lo sguardo perso del ragazzo della copertina, appoggiato alla vita, di una purezza che si fa dramma nella sua già  consapevole conoscenza della lotta contro le sovrastrutture di lì a venire, libero e pronto per la nuova big thing.

Pubblicazione: 1 luglio 1991
Durata: 36:20
Genere: Indie rock, post-hardcore
Etichetta: Dischord Records
Produttore: Fugazi

Tracklist:

1.Exit Only
2.Reclamation
3.Nice New Outfit
4.Stacks
5.Latin Roots
6.Steady Diet
7.Long Division
8.Runaway Return
9.Polish
10.Dear Justice Letter
11.KYEO