Sarà il caldo, la voglia di attaccarsi a qualsiasi cosa di forte, che non ti lasci sfuggire il tempo che d’estate ti scappa via proprio quando pensi che la bella stagione ti permetta di fare più cose, non meglio, ma insomma di dedicare tempo magari alle cose piacevoli, mentre è tutto un chiedere o un pretendere di buttare dentro la giornata mille appuntamenti ed occasioni, ma più ascolto il quinto album di John Grant più colgo il suo essere impalpabile, volatile e sfuggente, il che non è un granchè qui in questo preciso momento del 2021.
E’ una cosa che non si spiegherebbe, visti i buoni propositi di questo giovanottone del Michigan pronto appunto a ripercorrere in canzoni tutta la sua fanciullezza, l’adolescenza, sviscerando nei minimi particolari aspetti cari e nefasti del tempo che passa, portandoci ulteriormente dentro la sua vita fatta di scoperte ed eccessi, di turbamenti ed emozioni alterne, come spesso ha fatto in passato e come mai così intensamente fa ora, sentendo evidentemente il bisogno continuo di specchiarsi nella sua arte come unico, forse, modo di venire a patti con il proprio inconscio ballerino; Grant dai Czar fino al classico “Queen of Denmark” ha conosciuto una esplosiva evoluzione che dallo svelamento di una malcelata omosessualità lo ha portata ad una esuberanza nella liberazione dei sensi, che si è connotata e rafforzata anche con un’evoluzione interessante e per niente scontata in ambito sonoro, in un synth pop forse anche più consono rispetto ai temi ora più apertamente e forse consapevolmente trattati.
Ed in effetti in “Boy from Michigan” questo binario musicale che si appropria del folk West Coast, dell’elettro pop alla Depeche, alle partiture elettroniche molto vicine alle composizioni per il cinema di Carpenter, fino a cose weird, un pò alla Ariel Pink connota tutte le canzoni proposte, dando forma alla summa artistica in termini di varietà di proposta musicale dell’artista di Denver.
Ma come detto, il disco scorre e non si appiccica, le canzoni scivolano quasi tutte via e nonostante il contributo alla produzione dell’amica Cate le Bon, che in effetti definisce al meglio suoni molto moderni dentro i singoli pezzi, vuoi per un’eccessiva lunghezza a volte degli stessi, vuoi perchè forse ci siamo rotti di tutto questo parlarsi addosso che oramai al quinto album forse era meglio parlare d’altro, ci si annoia.
Un pò un peccato, di personaggi come John Grant in fondo se ne ha sempre bisogno, colgono in profondità tematiche molto sensibili con spiccato brio anche tecnologico in termini musicali, questo giro c’è anche un abbozzo politico al sogno americano, modellato esclusivamente per le persone forti indipendentemente dal contesto elettorale, certo, ora considerato migliore rispetto al trumpismo, ma vorremmo vedere questo crooner dal synth facile un pò più brillante e meno chiuso in sè stesso, magari alle prese con duetti o con vere dance songs o cose così, altrimenti non si esce dalla nicchia, mentre qui le caratteristiche per conquistare un pubblico più vasto ci sono tutte, per l’ex ragazzo del Michigan.
Credit Foto: Hörà°ur Sveinsson