Nove canzoni nuove di zecca per il nono album degli australiani Pond. Il quintetto capeggiato da Nick Allbrook, stufo di vivere all’ombra dei più celebri “cugini” Tame Impala, interrompe la lunga collaborazione con Kevin Parker per tentare la via dell’autoproduzione. E con quali risultati? Si direbbe più che dignitosi, considerando l’enorme varietà  degli stili proposti con gusto e professionalità  dalla band.

Con i brani di “9”, i Pond oltrepassano i confini della neopsichedelia e si lanciano in un’avventura all’insegna del pop rock più colorato, contaminato ed effervescente. Con un occhio rivolto agli anni ’80 e l’altro proiettato verso il futuro, il gruppo di Perth si diverte a rielaborare in maniera personale le lezioni di alcuni grandissimi del passato (David Bowie, Prince, Duran Duran, Primal Scream, i conterranei INXS) per dar forma a un sound che di certo non è l’apoteosi dell’originalità , ma sorprende positivamente con la forza di ritmi e melodie che sembrano rispondere al volere dell’unica, immensa entità  che muove i fili dei piedi degli avventori delle piste da ballo: sua maestà  il groove.

Le ricche e pulsanti linee di basso attorno alle quali ruotano le evoluzioni synth-funk di “Song For Agnes”, “Pink Lunettes” e “Rambo” sono un chiaro invito alla danza più sfrenata o, ancor meglio, alla riscoperta di quel contatto umano che, a causa della pandemia, continua a essere fonte di pericoli e disagi. Questo nonostante l’ormai insopprimibile esigenza di tornare a condurre una vita normale ““ una necessità  riconosciuta dagli stessi Pond che, tra le note acide e ipnotiche della ruvida “Human Touch”, infilano alcuni versi chiaramente ispirati al tremendo ultimo anno e mezzo delle nostre esistenze (I need some human connection/I need some human touch/Been behind these screens so long).

La vita, il divertimento e la compagnia: queste le uniche brame di Nick Allbrook e dei suoi spensieratissimi compagni. Piccoli desideri che arrivano a farsi quasi tangibili nella lussureggiante “America’s Cup”, una potenziale hit che flirta prepotentemente con la disco music degli anni ’70 e il dance-pop degli anni ’80. Meno orecchiabili ma sicuramente più interessanti da un punto di vista prettamente tecnico sono “Take Me Avalon I’m Young”, dove troviamo con piacere vaghi sapori stonesiani e archi sontuosi, e “Czech Locomotive”, che sembra muoversi assai timidamente nei territori inesplorati della world music.

Che sia il presagio di una svolta etnica in casa Pond? Inutile pensare al futuro, ora come ora. L’unica cosa che conta, almeno per il momento, sono le qualità  di un album sfaccettato e spumeggiante come “9”, destinato a dare una scossa importante alla carriera dei cinque australiani. Tanta energia ma non solo: sono belli anche i momenti più soft del lavoro, ovvero “Gold Cup/Plastic Sole” e l’eccellente “Toast”, una strana ballad dalle atmosfere “liquide” e sognanti in cui convivono in totale armonia psichedelia e sophisti-pop.

Credit Foto: Matsu