#10) BLACK COUNTRY, NEW ROAD
For the first time
[Ninja Tune]
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Il disco più sorprendente dell’anno, quello dei sette giovanissimi londinesi che mischiano post-punk, klezmer e free jazz in un esplosivo, imprevedibile caleidoscopio. E mentre la band si arrampica su pareti sonore sempre più ardite, i testi di Isaac Wood ““ mezzi cantati, mezzi recitati ““ traboccano di inquietudine e di un obliquo, spavaldo senso di inadeguatezza.

 

#9) FINE BEFORE YOU CAME
Forme complesse
[Legno]
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Nuovo tassello del lungo percorso dei Fine Before You Came ““ sempre più lontano dall’emocore degli esordi e arrivati qui a un lento, dolente slowcore ““ questo disco è un abbraccio che profuma di conoscenza e consapevolezza, di musica che rallenta i ritmi, condivide gli strumenti, scalda i cuori. Come l’ennesima serata passata in casa tra amici, mentre le forme del mondo fuori diventavano sempre più complesse.

 

#8) THE WEATHER STATION
Ignorance
[Fat Possum]
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Dopo una lunga carriera come musicista e attrice, la canadese Tamara Lindeman ha conquistato la critica di mezzo mondo con questo suo quinto disco a nome The Weather Station. Le ragioni sono chiare: il suo indie-folk ha trovato un equilibrio perfetto tra raffinatezza e immediatezza, in canzoni dalla produzione impeccabile che trasmettono sollievo senza negare le complessità  ““ personali e politiche ““ del mondo in cui viviamo.

 

#7) THE NOTWIST
Vertigo Days
[Morr Music]
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Da sempre campioni di contaminazioni tra generi diversi, in questo disco i Notwist hanno dato direttamente le chiavi di casa a una serie di ospiti scelti con grandissimo gusto. Un segnale politico di apertura contro le chiusure pandemiche e ideologiche, che ottiene un risultato anche musicalmente straordinario, nel quale l’indietronica di inizio millennio è solo il punto di partenza e non più quello di arrivo.

 

#6) CASSANDRA JENKINS
An Overview on Phenomenal Nature
[Ba Da Bing Records]
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“Hard Drive” è arrivata a gennaio come un fulmine a ciel sereno, a metà  strada tra un podcast di mindfulness e un memoir su trame dream folk. Attorno c’è un disco breve e praticamente perfetto, intimo e terapeutico. Sono canzoni ipnotiche, scritte nel giro di una sola settimana, basate su accordi semplici ma cosparse di una polvere magica e precaria.

 

#5) IOSONOUNCANE
IRA
[Trovarobato/RCA Numero Uno]
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Non è un viaggio facile quello di “IRA”, con le sue quasi due ore di musica, i suoi testi scritti in un esperanto evocativo quanto ostico da decifrare, i suoi suoni cupi e asfissianti dai quali emergono raggi di luce tagliente. Ma è un tributo a viaggi ben più perigliosi, quelli delle migrazioni di massa, che Jacopo Incani è riuscito a rappresentare in un coacervo di strumenti acustici ed elettronici, in una confusione unitaria e profondamente umana.

 

#4) LOW
HEY WHAT
[Sub Pop]
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Dopo aver disintegrato il loro sound in “Double Negative”, Mimi Parker e Alan Sparhawk hanno trovato un nuovo modo di comporre che non rinnega l’orecchiabilità  melodica che li ha resi celebri, ma lo fa usando mattoncini totalmente nuovi: insieme al produttore BJ Burton (che aveva già  operato una simile decostruzione sugli ultimi due dischi di Bon Iver) portano effetti e distorsioni digitali ben oltre le loro soglie di utilizzo, scoprendo veri e propri nuovi mondi sonori.

 

#3) ARLO PARKS
Collapsed in Sunbeams
[Transgressive Records]
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Sembra troppo bello per essere vero: una ventenne di Londra scrive qualche canzone nella sua cameretta, incontra un produttore, realizza il disco di debutto e va dritta a vincere il Mercury Prize. Eppure bisognerebbe essere davvero cinici per non commuoversi almeno un po’ davanti a queste storie scritte con empatia e attenzione ai dettagli, per non battere il tempo sul pop dalle sfumature R&B che permea “Collapsed in Sunbeams” e lo rende un disco che si può riascoltare all’infinito senza mai stancarsi. Un piccolo classico.

 

#2) HAND HABITS
Fun House
[Saddle Creek]
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Dopo l’ottimo “Placeholder”, avevo grandi aspettative per il terzo disco di Hand Habits. “Fun House” non le ha realizzate tutte, ma continua a rivelarmi nuove sfumature ad ogni ascolto. Sono canzoni scritte e registrate in un anno di lockdown e isolamento sociale, dove Meg Duffy continua a rivolgere lo sguardo soprattutto verso l’interno ma, con l’aiuto di Sasami alla produzione, allarga la palette ben oltre la sua comfort zone. In un percorso che mi ricorda quello di Sufjan Stevens, sposa indie folk e synth pop, e colora testi chirurgicamente drammatici in arrangiamenti luminosi.

 

#1) DRY CLEANING
New Long Leg
[4AD]
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Potremmo rapidamente catalogare i Dry Cleaning nel filone del ritorno del post punk: sono un quartetto inglese dall’estetica vintage e minimale, hanno suoni asciutti, una batteria che sembra registrata in sala prove, enormi riff di chitarra e un basso potente che sorregge il tutto. Ma questa è solo la (valida) impalcatura per la frontwoman più improbabile del 2021: Florence Shaw non canta, recita monologhi surreali che suonano come litanie ma sono un flusso di coscienza degno di James Joyce ““ se fosse vissuto nel ventunesimo secolo.