Si intitola “IX” l’album di debutto degli Host, il nuovo progetto elettronico/industrial nato dalle menti di Nick Holmes e Greg Mackintosh, rispettivamente il cantante e il chitarrista dei celeberrimi Paradise Lost.

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Nove tracce per tornare a mettersi alla prova con quelle sonorità algide e sintetiche già esplorate con la band madre alla fine degli anni ’90, quando i nostri fecero storcere più di qualche naso con un disco lontano anni luce dal loro tradizionale gothic metal imbevuto di doom che, guarda caso, si intitolava proprio “Host”. Questo lavoro ne è a tutti gli effetti l’erede spirituale, con un aggiornamento importante per quanto riguarda il sound design (e non poteva essere altrimenti, considerando i balzi da gigante che ha fatto la tecnologia dal 1999 a oggi). Le chitarre, seppur non assenti, hanno un ruolo marginale nell’opera. Sono i sintetizzatori a spadroneggiare in un album che, come il suo vecchio fratello gemello, deve molto (per non dire troppo) ai numi tutelari Depeche Mode, veri e propri idoli per la premiata ditta Holmes – Mackintosh. L’influenza di Dave Gahan e compagni è fortissima in “Tomorrow’s Sky”, “A Troubled Mind” e “Years Of Suspicion”, brani oscuri ed epici impreziositi da ritornelli a dir poco suggestivi.

Le sontuose parti orchestrali, così come le melodie malinconiche ed eleganti, fanno da filo conduttore a un disco estremamente raffinato, prodotto in maniera impeccabile dal fido collaboratore Jaime Gomez Arellano (anche alla batteria su tre tracce). Dietro tanta notevole apparenza, però, c’è ben poca sostanza. Il pregio principale del progetto Host sta nel ricordarci le qualità e i talenti dei suoi interpreti. Greg Mackintosh si dimostra per l’ennesima volta un fine compositore e arrangiatore, così come Nick Holmes
stupisce per la sua estrema versatilità; impossibile, in questo senso, non citare il suo coinvolgimento nei Bloodbath, il supergruppo death metal che, ancora oggi, gli dà modo di sfoderare il suo brutale e cavernoso cantato in growl.

Nel cuore di “IX” scorre il sangue gotico e romantico dei Paradise Lost più accessibili – ovvero quelli del periodo immediatamente successivo a “Draconian Times” – con contaminazioni dark wave, post-punk e synth-pop rielaborate in modo sapiente ma non brillantissimo. Come già detto, manca quello sforzo creativo necessario per staccarsi dai modelli di riferimento e produrre qualcosa di realmente originale.

L’impressione generale, per quanto assurda possa sembrare, è quella di sentire i Depeche Mode più rock proporre brani inediti scritti dai Paradise Lost. Una sensazione che caratterizza bene o male l’intera raccolta, anche nei suoi momenti migliori (“Hiding From Tomorrow”, “My Only Escape” e “Wretched Soul”). Era lecito aspettarsi qualcosa di più incisivo da Nick Holmes e Greg Mackintosh: non un semplice aggiornamento di “Host”, bensì una sua coraggiosa evoluzione.