Secondo album per Amber Bain in arte The Japanese House, dodici brani che confermano il talento della musicista inglese che è riuscita a mettersi in gioco, pur rimanendo fedele alle radici synth pop ed elettro pop che ne hanno segnato la fortunata carriera.

Credit: Bandcamp

Copertina minimale ma significativa, un cerchio che si chiude, segno evidente che almeno alcuni dei dubbi che caratterizzavano vita e carattere di Amber Bain si sono trasformati in certezze. Katie Gavin dei MUNA, Chloe Kraemer nel ruolo di produttrice e ingegnere del suono, Justin Vernon (Bon Iver),  Matty Healy e George Daniel dei The 1975 sono solo alcuni degli artisti presenti in questi quarantacinque minuti.

I tre singoli – “Sad to Breathe”, “Boyhood”, “Sunshine Baby”con Healy – sono la base ritmica e sonora su cui costruire un pop sfaccettato e spesso malinconico, che non lascia nulla al caso ma mantiene un filo di mistero sulla vita di Amber. Relazioni a due o multiple, che finiscono bene o male, riflessioni senza filtri su passato e presente inizialmente composte al piano e poi rielaborate con pazienza fino ad arrivare a quel suono melanconico e confidenziale che è ormai la cifra stilistica di The Japanese House.

Nascosti tra le mille pieghe, le tante svolte a sorpresa di “In The End It Always Does” ci sono forse i brani migliori, quelli più intimi. “Touching Yourself”,  “Over There” e “Morning Pages” dove le voci di Bain e Gavin riescono a costruire un bel crescendo emotivo e sonoro tra gioia e tristezza in un buon esempio di sorellanza, “Baby goes again” con la chitarra acustica a dettare il ritmo, “One for sorrow, two for Joni Jones” nata come omaggio a Joni Mitchell. Sempre sincera, molto più sicura di sé, Amber Bain dimostra ancora una volta di essere un’artista completa.