Alla fine la forma ha prevalso, prevaricando, sul contenuto. Laddove fino a “Moonrise Kingdon” i quadri perfetti, fatti di geometrie, colori pastello e meragigliosi abiti da scena, dei film del regista texano erano lo scenario, la prigione di emotività soppresse ma strabordanti, da “Gran Budapest Hotel” in poi hanno iniziato a svuotarsi, fino a questo “Asteroid City” in cui sono nuovamente meravigliose, ma ineluttabilmente fini a se stesse.

Tolto qualche quadro che toglie il fiato e qualche trovata narrativa interessante come i teneri dialoghi da un bungalow all’altro tra la Johansson e Schwartzman, “Asteroid City” è perlopiù irritante, con i pallini del regista a sopraffare completamente il messaggio, che, udite udite, non c’è. Così come ammette candidamente la sceneggiatura in uno spiegone metatestuale che rende il tutto ancora più fastidioso.

E quindi niente, se vi interessa la collezione di attori famosi in versione figurine Panini a tinte Faber Castel chiamati a dire due battute ciasuno, bene – ha fatto piacere anche a me, per dire, vedere Matt Dillon in versione meccanico del deserto. Altrimenti soprassedere.

E pensare che le premesse, ovvero un gruppo di piccolo nerd riuniniti nel cratere di un asteroide per competere a suon di invenzioni, mi avevano fatto sperare in un ritorno alle atmosfere dell’Anderson primigenio.