Dopefish, CC0, via Wikimedia Commons

Anche i cosiddetti tributi, devono incominciare ad essere presi in considerazione, soprattutto per quegli artisti, che, di fatto, non esistono più, a maggior ragione quando all’interno della line up c’è un musicista dalla formazione originale (ma anche non necessariamente, se il tributo in questione è fatto con accortezza e buon senso), è il caso di questo spettacolo portato in giro da Nick Mason da diversi anni a questa parte, ma potrei citare anche lo stesso di Steve Hacket alle prese con il materiale storico del capolavoro “Foxtrot” e i suoi seminali Genesis; qualche mese fa passò da Milano la più accreditata, stando ai fatti, cover band degli straordinari Grateful Dead, insomma si entra in una sorta di modalità musica classica, un artista contemporaneo che fa rivivere con la sua personalità quello che quel musicista ha prodotto e inciso.

Il caso di Nick Mason, comunque anello di congiunzione fondamentale di tutta l’epopea dei Pink Floyd, è appunto una via di mezzo, c’era sin dal giorno zero, e, se vogliamo, nessuno meglio di lui può andare a reinterpretare quelle canzoni, tra l’altro scavando nel lato più oscuro, brani che gli stessi Pink Floyd degli ultimi anni non suonavano più, il materiale meno mainstream, se così si può dire.

Uno show rodato, in giro appunto da tanto tempo, con una missione vera e propria, non certo, o almeno non solo per mestiere, attorniato da musicisti di grande valore; il più conosciuto è Gary Kemp, storico chitarrista degli Spandau Ballet, qui alle prese anche delle parti vocali, insieme a lui, da tanto tempo nella famiglia Pinkfloidiana come turnista, nonché genero del compianto ed immenso Richard Wright, c’è anche Guy Pratt al basso e al canto a dare man forte, quindi Dom Beken alle tastiere e Lee Harris all’altra chitarra a chiudere la line up.

Dicevo scaletta che pesca tra la fase più sperimentale e free della mastodontica produzione del collettivo londinese, le filastrocche psichedeliche o le suite lunghissime, molto probabilmente il lato meno conosciuto, ma quello più affascinante e forse più ispirato.

È una serata fresca ai limiti dell’autunnale con tanto di felpa al seguito, di un’estate, che sembra non avere minimamente voglia di normalizzarsi secondo il calendario canonico; concerto che comincia con qualche minuto di ritardo, ma durerà un paio d’ore con una piccola pausa tra i due set.

Che dire? Mi ha fatto piacere riascoltare quei capolavori seminali, fonte conscia o meno delle fondamenta di gran parte della musica moderna, lo spettacolo in se’ non mi ha convinto così tanto, sebbene sia onesto e sincero, realizzato prima di tutto, da veri musicisti che da professionisti.

Gary Kemp fa il suo nei panni del leader, a lui l’onere di gestire gran parte delle linee guida, impeccabile e preciso, nulla da dire, ma avrei preferito un musicista con un background diverso anche di nuova generazione, meglio sicuramente e più a fuoco, se non altro per un timbro di voce più affine agli originali; Guy Pratt, già turnista negli ultimi due tour mondiali dei Pink Floyd, ovvero quello di “A Momentary Lapse of Reason” e “The Division Bell”, di fatto l’uomo incaricato a ricoprire il ruolo di Waters.

L’atmosfera è carina, ripeto, non voglio fare il pignolo e nemmeno l’avvocato del diavolo, non ce n’è bisogno, poi Nick Mason è un vero signore, il classico gentleman inglese, dalla voce rassicurante e assolutamente ricco di humor e simpatia, per quel poco che abbiamo percepito dalle sue introduzioni e per quanto gli riguarda a quasi ottanta candeline ancora in grado di catalizzare l’attenzione con quel suo stile, che ha influenzato generazioni e quando ci siamo avvicinati per gli ultimi pezzi, come spesso capita al Vittoriale, il pensiero va su quante storie e vicissitudini dalla nascita del pianeta musica, abbia visto questo musicista, che da oltre 50 anni è presente sulla scena.

Nonostante la voluta assenza delle hit Pinkfloydiane, la scaletta è esagerata, a testimoniare ancora una volta, su quanto siano stati un caso emblematico, da qualsiasi lato li si voglia prendere in considerazione.

Da “Arnold Layne” a “Fearless” da “Obscure by clouds” fino all’eccentrica “Vegetable Man”, l’incredibile “If”, “Atom Heart Mother”, la conclusiva, quanto assurda “Echoes” e via dicendo, fino a “a saecerful of secrets”.

Sostanzialmente uno show piacevole e celebrativo, magari non perfetto, ma, tuttavia, necessario per riscoprire certe sonorità anche rese più fruibili dalla tecnologia odierna, quindi nel complesso giudizio positivo.

Era l’ultimo appuntamento del bill di Tener-a-mente, punto di riferimento della musica che conta in Italia, una sorta di congedo quanto un arrivederci al prossimo anno.