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L’uscita di un corposo box set (“A.R. Kive” Box-Set) contenente i remaster dei lavori prodotti tra il 1988 e il 1989 ci dà la possibilità di tornare a parlare dei troppo spesso dimenticati A.R. Kane, un duo britannico attivo dal 1986 al 1994 e poi di nuovo tra il 2016 e il 2018, in una breve reunion finita nel trasformarsi in un progetto inedito chiamato Jübl.

Prima di approfondire il tema, partiamo da una premessa necessaria. I nomi di Alex Ayuli e Rudy Tambala saranno per sempre legati al successo planetario della rivoluzionaria hit “Pump Up The Volume” – un celeberrimo classico della dance prima maniera a firma MARRS, nient’altro che un’estemporanea collaborazione tra i due A.R. Kane e i Colourbox nata dietro la spinta della casa discografica 4AD.

Le fortune commerciali del duo si limitano essenzialmente a questa breve (ma pesantissima) parentesi. Se “Pump Up The Volume” ha scritto un pezzo di storia dell’hip hop e della house, imposto all’attenzione del mondo l’utilizzo creativo dei sample e raggiunto i vertici delle classifiche di mezzo mondo (primo posto anche in Italia), gli A.R. Kane si sono fermati a un paio di numeri uno nella UK Independent Albums Chart.

Un traguardo senza dubbio degno di nota, vista la quantità di capolavori indie sfornati dal Regno Unito nel periodo a cavallo tra la fine degli anni ’80 e i primi ’90. La totale assenza di contatti con il mainstream, tuttavia, non può che essere indicativa di un semplice fatto: la musica sognante e criptica degli A.R. Kane nasce per essere di nicchia. Un sound arcano e affascinante che viene plasmato non tanto per colpire il pubblico e il mercato, ma per appagare i suoi curiosissimi autori. Pura atmosfera sonora che si sviluppa seguendo le geniali e, per l’epoca, innovative intuizioni di Ayuli e Tambala, due londinesi cresciuti in famiglie provenienti rispettivamente dalla Nigeria e dal Malawi.

Il legame con il multiculturalismo ce l’hanno letteralmente nel DNA. A innescare la nascita degli A.R. Kane, come più volte affermato dai diretti interessati, furono le emozioni scaturite dalla visione di un’illuminante ospitata dei Cocteau Twins in un programma televisivo di Channel 4. Le vere e proprie origini musicali del progetto, tuttavia, sono molto più complesse e variegate.

Il dream pop, naturalmente, è la base di partenza delle opere degli A.R. Kane. E non potrebbe essere altrimenti, considerando il fatto che fu proprio Alex Ayuli a coniare il termine (oggi abusatissimo, visto che qualcuno ci infila in mezzo anche Taylor Swift…). Dietro le atmosfere dub, le chitarre evanescenti e i ritmi essenziali disegnati dalla drum machine c’è pero tutto un mondo sonoro che spazia dal cosmic jazz di Sun Ra alle sperimentazioni fusion e rock di Miles Davis e Jimi Hendrix, passando ancora per i Velvet Underground, il krautrock, il soul, il blues, il reggae, l’elettronica, la psichedelia e il noise.

Un universo di suoni alieni che iniziò a farsi davvero luminoso con l’EP “Up Home”, pubblicato da Rough Trade nell’aprile 1988. Nella canzone scelta come apripista, la notturna e ipnotica “Baby Milk Snatcher”, c’è tutta l’essenza dei primi A.R. Kane. Su un oscuro sfondo dub, sorretto da profondissime note di basso, appaiono con contorni poco nitidi fragorosissime e sfrigolanti chitarre che aprono squarci elettrici dal gusto blues. Molto più vivaci e sognanti i due brani successivi, “W.O.G.S” e “One Way Mirror”, dove l’influenza diretta dei Cocteau Twins emerge in maniera palese. Impossibile infine chiudere questa breve descrizione di “Up Home” senza citare la conclusiva “Up”: una traccia strabordante di feedback assordanti ma soffice, di una bellezza arcana e spettrale, dove si scorgono i prodromi dello shoegaze, del post-rock e dello slowcore a venire.

Nel luglio del 1988 Alex Ayuli e Rudy Tambala fanno uscire quello che è universalmente considerato il loro capolavoro, ovvero il full-length di debutto intitolato “69”. Un disco realmente impressionante, frutto della totale libertà creativa conquistata dagli A.R. Kane. La tavolozza di suoni si allarga a dismisura e il dream pop si trasforma in vera e propria avanguardia. Il desiderio di sperimentare prende il sopravvento ma non va persa quella spiccata sensibilità melodica che è alla base dell’intera opera del duo londinese.

Il grande protagonista di “69” è il basso elettrico. Un suono rotondo, pulsante e liquido avvolge canzoni come “Crazy Blue”, al tempo stesso dolce e alienante, e “Suicide Kiss”, sorretta da trame chitarristiche tipicamente noise rock. In scaletta ritroviamo assai volentieri una versione alternativa e più breve di “Baby Milk Snatcher” a cui fanno seguito la calma scarna e poco rassicurante di “Scab” e i feedback allucinanti e cacofonici di “Sulliday”, un brano assolutamente inclassificabile nel quale gli A.R. Kane danno forma a un dream pop da incubo. Un ossimoro musicale che prosegue in “Dizzy”, dove si susseguono calde note di violoncello e urla belluine.

Infine le atmosfere del disco vanno a farsi sempre e sempre più eteree. Ci si perde nei sogni LSD della psichedelica “Spermwhale Trip Over”, negli echi ammalianti delle chitarre ultra-effettate di “The Sun Falls Into The Sea” e nelle nerissime ombre jazz che avvolgono “The Madonna Is With Child”. Un viaggio negli abissi musicali degli A.R. Kane che si conclude nelle note in libertà della breve “Spanish Quay (3)”: cadono le strutture, i generi svaniscono e resta la pura essenza del suono. Il pop si dissolve per lasciare campo aperto al sogno.

Per il critico Simon Reynolds gli A.R. Kane di “69” raccontano l’immobilità dell’estasi. La bellezza della musica proposta da Ayuli e Tambala non ha nulla di dinamico: è racchiusa nel continuo ma impercettibile alternarsi di cadenze e passaggi che imitano l’avvicendarsi incontrollato e imprevedibile delle emozioni e degli stati mentali dell’uomo. È una forma di pop più essenziale di quanto possa sembrare perché, dietro l’assenza di hook, ritornelli orecchiabili e schemi definiti, c’è la semplice voglia di avvicinarsi all’anima delle cose.

Con le ventisei tracce di “i”, il secondo album degli A.R. Kane pubblicato nell’ottobre del 1989, ci si avvicina però a una visione leggermente più “terrena” del dream pop. Tambala e Ayuli proseguono il loro processo sperimentale, senza filtri e aperto alle più svariate influenze, ma lo fanno ponendosi regole e limiti definiti.

Il disco ha un suono molto più professionale, elaborato e sintetico rispetto a “69”, un’opera in tutto e per tutto underground che trae la sua forza anche dall’uso creativo della bassa fedeltà. “i” è invece un lavoro più in linea con una concezione “normale” del pop, seppur segnato da una mole impressionante di contaminazioni che vanno dalla house di “A Love From Outer Space” e “Snow Joke” all’afrobeat di “Crack Up” e “Conundrum”, passando ancora per il reggae più o meno ordinario (“What’s All This Then”, “And I Say”, “Catch My Drift”), il chamber pop (“In A Circle”) e persino un qualcosa che potremmo definire punk rock (“Insect Love”).

La magia rarefatta del dream pop è, in questo caso, un elemento secondario che emerge in modo netto solo in una manciata di brani (“Honeysuckleswallow”, “Spook”, “Sugarwings” e “Down”). Si iniziano a sentire frammenti di vero e proprio shoegaze nella distortissima “Supervixens” e nella sorprendente “Pop”, un esperimento psichedelico a metà strada tra noise, gospel, Prince e David Bowie.

Nonostante l’estrema (se non addirittura eccessiva) ricchezza stilistica, gli A.R. Kane di “i” non hanno la carica rivoluzionaria di “69” ma restano ancora una realtà estremamente innovativa. L’album, a fronte di una quantità mostruosa di intermezzi che fanno da collante tra un brano e l’altro, scorre via in scioltezza e ha il merito assoluto di dar risalto alla versatilità di due artisti come Alex Ayuli e Rudy Tambala, capaci come nessun altro di far coesistere orecchiabilità e avanguardia.

Non credo serva aggiungere altro. Questo box set è imperdibile per un paio di semplici motivi: riaccende i riflettori su due tra le menti più brillanti della musica anni ’80 e rinvigorisce un sound che, all’epoca della sua nascita, conquistò e segnò l’evoluzione artistica di band assai diverse tra loro come Bark Psychosis, Slowdive, Seefeel, Long Fin Killie e Dubstar. E mi sono limitato a citare chi ha parlato apertamente del peso degli A.R. Kane perché, difatti, le idee di Ayuli e Tambala si nascondono in buona parte delle moderne uscite post-rock, slowcore e dream pop. Peccato per la totale assenza di rarità, inediti e bonus track; il piatto però è già ricco così com’è – di certo non abbiamo nulla di cui lamentarci.