L’Apocalisse non è per chi è privo di coraggio è solito dire David Eugene Edwards musicista e songwriter che in carriera ha sempre seguito l’ispirazione e la sua personalissima musa sia con i 16 Horsepower che con il progetto Wovenhand. “Hyacinth” primo album uscito ufficialmente a suo nome è l’ennesima evoluzione, un mettersi a nudo tornando alle radici di un sound volutamente minimale che unisce folk, post – punk, Americana, riferimenti religiosi e spirituali.

Credit: Loic Zimmerman

Un sogno a occhi aperti composto in larga parte affidandosi al banjo, all’altrettanto fida chitarra dalle corde di nylon, registrato con l’aiuto di Ben Chisholm (The Armed, Chelsea Wolfe, Converge, Genghis Tron) abilissimo nel trovare e aggiungere parsimoniosamente gli strumenti più giusti, nell’arricchire gli arrangiamenti con drone e distorsione, influenze post – punk per creare quel senso di caducità e pericolo che anima “Seraph”, tormentato brano d’apertura di forte impatto.

Melodie oscure e maledette quelle di “Howlin’ Flower” e “Celeste” tra noir e dark folk con i sintetizzatori in sottofondo che trasformano “Through The Lattice” in un’invocazione laica e rendono significative le armonie tenebrose di “Apparition” e “Bright Boy” con il suo impeto country folk e fuorilegge, pieno di dubbi e incubi.  

Antica e moderna, la voce di David Eugene Edwards anima mondi lontani nella title track e nell’apocalittico singolo “Lionisis”. I lunghi periodi di confinamento e solitudine durante la pandemia hanno ovviamente influenzato la genesi di un album vulnerabile e introspettivo, sofferto, che raggiunge il climax nel finale.

Gli arpeggi febbrili di “Weavers Beam”, i toni ambient di “Hall Of Mirrors” (che un po’ ricorda la ghost track “Untitled” in “Ten Stories” degli Wovenhand) e l’evocativa “The Cuckoo” confermano la volontà espressa da  David Eugene Edwards di esplorare i limiti estremi del folk come un moderno solitario cowboy, menestrello delle umane e divine esperienze tra cupe ballate e bibliche ossessioni.