Incantano ancora gli irlandesi Soda Blonde e, questa volta, con minore raffinatezza ed eleganza rispetto al disco del debutto ma sempre con lo stesso risultato: favolosi. Se il precedente “Small Talk” era caratterizzato da un modern pop lineare e votato alla ricerca della perfezione delle trame sonore, questo “Dream Big” si muove su territori più audaci, più grintosi e sperimentali.

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Il trittico d’apertura formato da una meravigliosa “Midnight Show”, dalla goldfrapp-iana “Bad Machine” – episodio monumentale dell’intero full-length – e dalla sognante “Boys” illustra il nuovo tracciato segnato dal collettivo irlandese il quale, seppur sempre adagiato sul pattern degli esordi, riesce a sorprendere per la varietà degli arrangiamenti. La title track mette dunque il punto su questo aspetto per quanto risulta magnetica e imprevedibile nella sua seconda parte tagliente e inquieta avvolta da una sequenza di archi.

Il quartetto di Dublino si lascia trasportare anche da riverberi vintage che richiamano quella sorta di “glamour-pop” del debutto, come nella ninienties “Space Baby” o nelle note eighties della bellissima “Why Die for Danzig?” e che, insieme all’approccio immediato di “WWDWD”, rendono l’ascolto un’esperienza sonora avvolgente e completa.

Registrato nei Blackmountain Studios di Dundalk, al confine con l’Irlanda del Nord, il suono del nuovo album è stato arricchito dal prezioso aiuto fornito dal Glas Quartet – già al lavoro con Biffy Clyro, Paul Weller, Echo and the Bunnymen, The Twilight Sad solo per citarne alcuni – collettivo di archi che ha reso alcuni brani ancora più magici come “My first name”, tra le migliori sicuramente.

Anche in “Dream Big” l’attenzione è incentrata sulla voce eterea e inconfondibile di Faye O’Rourke che raggiunge picchi emozionali altissimi nella più classica (e immancabile) ballad “An Accident”, come nelle note cadenti e nostalgiche di “Less Than Nothing”, il tutto mentre le lyrics della sua penna scorrono mature e convincenti.

Chiudono questo sophomore i sette minuti di “Going Out” che, attraverso la drammaticità dei versi della O’Rourke, conducono la band all’epilogo di un lavoro convincente e tutt’altro che inaspettato.