Quasi ogni appassionato di musica diventa, prima o poi, almeno un po’ nostalgico e, quando raggiunge l’età normalmente caratterizzata da un lavoro impegnativo, una famiglia e dei figli, ripensa a quando si godeva i dischi e i concerti dei propri idoli generazionali e tutto il fermento e il senso di comunità che stava attorno alla musica. Noi amanti del britpop non siamo stati da meno, e così è stato naturale che sempre più band che erano passate, come noi, ad avere la vita di cui sopra, abbiano voluto rimettersi in pista e tornare sia a fare dischi nuovi che, più spesso, a suonare dal vivo.

Per noi, e anche per loro, si è trattato di un revival spesso entusiasmante. Tornare sotto certi palchi e constatare che chi ci suonava era diventato esattamente come noi, ovvero non aveva perso la capacità di divertirsi nonostante l’anno di nascita scritto sulla carta di identità, ci ha dato una botta di adrenalina e di positività non indifferente. E lo stesso è stato per i protagonisti quando hanno visto che il loro pubblico non si era trasformato in una esercito di mummie piene di acciacchi e restie a lasciarsi andare, ma anzi, reagiva ai concerti con lo stesso entusiasmo di tanti anni prima. Parlando da italiano, poi, gli anni in cui, a turno, diverse star del britpop viaggiavano nel nostro Paese a suonare in acustico sono ancora adesso indimenticabili, non solo per le performance, ma anche per le tante chiacchiere tra gente come Nigel Clark, Rick Witter, Mark Morriss, Leon Meya e noi confinati al di qua delle Alpi e che, negli anni d’oro non avevamo i mezzi per spostarci nel cuore della Cool Britannia.

Anche l’ascolto dei nuovi dischi, arrivati, come dicevo, come meno frequenza e solamente qualche anno dopo, ci ha dato diverse soddisfazioni. In particolare, “Instant Pleasures” degli Shed Seven è un notevole pezzo di bravura dal punto di vista sia del songwriting che dell’interpretazione, ma anche “Hey Samurai!” dei Northern Uproar, “Stand Upright In A Cool Place” dei Dodgy, “The Modern Age” degli Sleeper e le diverse prove soliste di Mark Morriss sono album di tutto rispetto che a noi hanno fatto dire cose come “avete visto che avevamo ragione e che il britpop non era solo un fenomeno costruito e modaiolo? Sentite qui cosa sono in grado di fare i nostri eroi anche oggi!” e, probabilmente, anche in loro avranno rafforzato la convinzione secondo cui la benzina non era finita e che le loro parabile artistiche avrebbero meritato di durare di più.

Insomma, tutto bello, anzi, stupendo, anche perché i tour celebrativi dei tantissimi capolavori di quegli anni si moltiplicavano e insomma, da qualsiasi parte lo si guardasse, questo revival era un successo. Purtroppo, però, mi sto trovando, come potete leggere, a dover usare il tempo passato, perché ho la netta sensazione che la situazione stia di nuovo precipitando e, forse, bisognerebbe prendere in considerazione l’ipotesi di applicare nuovamente il fermo macchine. Il 2024, infatti, ha visto il ritorno degli Shed Seven su un livello qualitativo ancora soddisfacente, ma lontano dai fasti dell’album precedente, e quelli di Cast e My Life Story sotto forma di album e di Chris Helme con un paio di singoli, con tutte e tre le prove che possono essere tranquillamente descritte allo stesso modo, ovvero piene zeppe di stereotipi e idee scontate, senza un minimo sussulto.

Che poi, sono gli stessi rilievi che possono essere mossi al disco di Liam Gallagher e John Squire, artisti che certamente hanno tutt’altra popolarità oggigiorno, ma anche nei migliori anni di questo revival ci siamo goduti gli Suede in splendida forma, dei Blur a intermittenza ma su buoni livelli e un Jarvis Cocker in pieno fermento creativo. Sarà un caso che, anche quando i grandi nomi vanno in difficoltà, anche quelli meno noti ma che erano collegati allo stesso circuito non se la passano bene?

Il punto è anche che la sovrabbondanza di tour celebrativi o comunque incentrati sul passato rischia di subire un effetto boomerang e passare da fattore determinante per la riuscita di questo revival, a motivo per la perdita di entusiasmo. Mi riferisco, in particolare, a band che continuano ininterrottamente a fare concerti, ma sempre riproponendo le cose migliori. Che gli Shed Seven, ogni due o tre anni, facciano lo Shedcember, ha senso, mentre ne ha molto meno il fatto che i Dodgy celebrino “Free Peace Sweet” per due anni di fila o che i Bluetones, dopo aver celebrato “Return To The Last Chance Saloon” solo nell’autunno scorso, torneranno anche in quello del 2024 con un “career spanning set”, quindi ancora in modalità nostalgia. Insistere così tanto sui ricordi rischia di fare l’effetto dell’accanimento terapeutico, detto che se fossi residente in UK ci andrei, ma intanto così le motivazioni per muoversi dall’estero sono sempre meno e, prima o poi, sarà lo stesso per chi vive lì.

Perché è inutile nascondersi, questo abbassamento della qualità delle cose nuove e queste esagerazioni nel celebrare il passato senza soluzione di continuità fanno venir meno la sensazione che si tratti di ascolti e eventi imperdibili, per i quali non bisogna guardare in faccia a niente e nessuno e impiegare il nostro tempo, le nostre energie e i nostri soldi per essi. Un ascolto non lo si nega certamente a nessuno, ma magari ora lo si darà quando si riesce, e non per forza il giorno dell’uscita, e per quanto riguarda i live, se tutto si incastra ci si può ancora andare, ma lo sforzo per essere noi a far incastrare questo tutto sarà molto più ridotto. Non voglio già decretare fin d’ora la fine irreversibile di questo revival, che, ripeto, è stato magnifico, ma darsi una regolata è indispensabile, e non sono così ottimista sul fatto che ci si riesca.