#10) JULIA HOLTER
Have You in My Wilderness
[Domino]
Nelle trame più sensualmente cantautorali dell’attuale musica americana Julia Holter resta una piacevole conferma e, fra affreschi di inusitata semplicità e pregevole architettura, sciorina l’uno dopo l’altro, con la malizia delle grandi songwriter, i tratti di un affresco da camera fatto di melodie leggere per cuori selvaggiamente intimi.
#9) JOANNA NEWSOM
Divers
[Drag City]
E’ senza soluzioni di continuità che Joanna Newsom invita al viaggio, è così che ci ha abituato, il percorso è il solito fumo profumato che stordisce e si perde nelle ritrosie di una fiaba magica. L’ambientazione è essa stessa narrazione, la voce un dolce vizio d’arrangiamento. Kate Bush increspò il velo di uno stagno lanciando un sasso, l’arpista elfa del Nevada continua ad allargare quei cerchi concentrici conducendoli verso la complicazione armonica, verso la bellezza nascosta.
#8) BEACH HOUSE
Thank Your Lucky Stars
[Sub Pop]
Un disco sospirato, preannunciato con la dovuta suspense da disco dell’anno e poi… il gioco, la sorpresa, la doppietta che non ti aspetti, questo secondo “Thank Your Lucky Stars”. E un’altra tracklist per nulla sottotono, per nulla da lasciare in cantina. Bisogna averne di frecce al proprio arco per restare nel cuore senza ingrossarlo. Ma nei sogni, si sa, tutto è possibile.
#7) TAME IMPALA
Currents
[Interscope]
Quando il revival degli anni ’90 diventa scienza, alla larga da approdi hipe-isterici e malanni più o meno cercati per troppo e incerto modernariato, vengon fuori davvero i grandi dischi. E al netto delle micro-gigantografie sonore per pargoli dei Flaming Lips, dietro i Tame Impala c’è davvero del genio. Il segreto? tanto amore per la melodia, quella più atmosferica. Il resto vien da se.
#6) KURT VILE
B’lieve I’m Goin Down”…
[Matador]
L’anno scorso con i War on Drugs ha contribuito a spostare di una spanna più in là l’asticella del mondo folk rock. Quest’anno continua la sua personale parabola, chiaramente ascendente, fra languori alt-country, un songwriting sempre avvincente e un viscerale chitarrismo elettrico per cowboy post duemila. A volerlo rintracciare un erede di Neil Young, fra le fitte boscaglie dell’adult-folk contemporaneo, un nome ce l’avremmo di sicuro.
#5) THE DECEMBERISTS
What a Terrible World, What a Beautiful World
[Capitol]
Il sapersi reinventare può non essere impresa titanica se hai dalla tua quella grazia di trasformare in oro qualunque cosa esca fuori dal vaso di pandora dell’ispirazione. Ma che Colin Meloy fosse un prodigio, in tutte le mutevoli facce della sua personale creatura, lo sapevamo già . Con questo disco prosegue la svolta squisitamente pop dei suoi decabristi e la direzione appare chiara: far continuamente della semplicità virtù. E scusate se è poco.
#4) BEACH HOUSE
Depression Cherry
[Sub Pop]
Quando “Sparks”, apripista della fatica (pen)ultima di casa Beach House, ci è arrivata addosso nell’estate appena trascorsa, palesandosi con la palpitante frenesia di un bagliore d’agosto all’orizzonte, tutto fiamme ambrate e foschia, sapevamo sarebbero state lacrime di gioia su guance e sorrisi storti. Tutti quei banchi di nebbia, tutta quella dolcezza aerea, tutte quelle albe senza fine. Perchè Depression Cherry, in fondo, è questo.. un amore sognato, ma vivido come in pieno giorno.
#3) KAMASI WASHINGTON
The Epic
[Brainfeeder]
E la luce fu, dal grigiore colossale, dal pantano mesozoico scaturito dal confronto che ogni musicista jazz deve sostenere negli anni ’10 del ventunesimo secolo, millennio secondo, nel produrre ancora pagine che abbiano un qualche peso nella storia del jazz.
Classe 1981, sassofonista californiano, Kamasi Washington travasa nel triplo “The Epic” un secolo di spiritual jazz, forte di un enciclopedismo mai saturo e lo proietta in futuro in cui il jazz ha ancora un’anima purissima e stupendamente elegante. Un lavoro da annali del genere.
#2) TIMBRE
Sun And Moon
[Aurora]
Di questo “Sun and Moon” stupisce la sua smodata compostezza, il lavoro ambiziosissimo di cesello e di produzione, che coniuga folk da camera, cantautorato art pop, musica orchestrale e corale con invidiabile naturalezza. Un lungo viaggio fuori dal tempo e fuori da ogni possibile catalogazione sbrigativa, un variegato trattato di armonia, una colonna sonora per un sogno orgogliosamente classico, un prodotto squisitamente indipendente e finanziato interamente da una campagna di crowdfunding. Timbre Cierpke è l’assoluta regina in musica di questo 2015.
#1) KENDRICK LAMAR
To Pimp A Butterfly
[Aftermath/Interscope]
Ma sulle cime innevate di questo 2015, svetta un feticcio sofisticato che profuma di rivoluzione da capo a coda, un siluro che impasta trent’anni di putrido e nerissimo hip-hop e che da lì parte per metter fuoco alla sua miccia. Una centrifuga stupefacente che più che a una stoicissima operazione di revival somiglia di più a un delirante brodo zappiano, a un frullato di funk e maleodorante blaxploitation dell’ultim’ora, un’ode deframmentata fino all’ultimo beat, in cui lo slogan imperante è proiettato da un faro blu notte direttamente sul fronte della casa bianca: ogni negro è una stella!