They judge me like a picture book by the colors

Nessuno si chiede più dove sia finita Lizzy Grant: se Lana del Rey fosse autentica o fosse una trovata commerciale è sempre stata solo una domanda mal posta. Mentre le altre pop star innalzano la loro vita privata a argomento di studio ““ dai coniugi Carter Knowles alla BadGal Riri ““ a Lizzy Grant non sembrava vero di potersi dimenticare di avere quel nome e cognome e un passato, non sembrava vero di iniziare a impersonare quella ragazza là , quella che ha visto con la coda dell’occhio o in un film in technicolor. Aveva detto vedi, dovrei prendermi un vestito rosso, diventare la ragazza che congela l’aria, che ferma le conversazioni. Quella ragazza lei lo è diventata ed è una messa in scena talmente piena di clichè che possiamo iniziare a chiederci che cosa farà  Lana nella prossima scena, se alla fine sposerà  quell’uomo e lui riuscirà  a salvarla: come in un film è fiction, ma, fino a che le luci non si accendono, tu ci credi.

Avevo maltrattato il precedente “Born to die”, definendolo indifferente come la musica che ascolti nei camerini dei grandi magazzini, e forse ero stata un po’ troppo severa verso un disco che è ancora capace di farmi imbastire un siparietto melò, sguardi languidi e obliqui, perchè “I’ve got the summertime, summertime sadness”, ma era davvero un niente di che. Il mio problema con quel disco era: Lizzy Grant si trasforma in Lana del Rey e va bene, ma per fingerti qualcun altro devi essere disinvolta abbastanza per farci dimenticare che quello è un palco, che gli interni sono stati disegnati da qualcuno, che tu sei stata disegnata da qualcuno ““ e quel disco, quella ragazza, mancavano di una sceneggiatura credibile, le pareti erano di cartapesta e qualcuno si era dimenticato di suggerirle l’ultima battuta. In “Ultraviolence”, la title track, Lana canta He hit me but it felt like a kiss, nelle interviste dice che di femminismo lei non parla, non le sembra un argomento interessante ma, insomma, nessuno si chiede se le donne di Dynasty o le dive di certi melò abbiano letto “Il secondo sesso”. Rihanna finisce all’ospedale, Miley Cyrus parla di quanto è buona l’erba del suo giardino, Lana del Rey canta I’m high on hydroponic weed, I’m a Brooklyn baby e finisce là .

Quando Francis Bean Cobain accusa Lana del Rey di rendere la morte di un giovane artista qualcosa di glamour quando non lo è affatto, ci obbliga a difendere la cantante ““ o a dire, cara Francis, non confondere i libri con la realtà : le lacrime di Lana sul palco, i pacchetti di sigarette, le malattie dichiarate, i suoi non vorrei essere viva, assomigliano ai crolli nervosi di altre artiste nella forma, ma commuovono come quelli dei film, ce ne dimentichiamo. Detto questo, “Ultraviolence” è un buon disco, più cupo di “Born to die”, meno divertente di “Born to die” (se mai è stato divertente). Lana è una ragazza di Brooklyn, con piume nei capelli e un ragazzo che suona nella sua band, lei canta Lou Reed e conserva libri di poesia Beat e dischi jazz introvabili, è da qualche parte sulla “West Coast”, un’attrice in declino o in attesa di brillare, con un amore e una casa sulle colline, è una “Sad girl”, una specie di Bonnie che aspetta Clyde, è un’arrampicatrice che vuole “Money Power Glory” che la ripaghino delle sue perdite e sconfitte, una che “fucked her way up to the top”; canta “this is my show”: Lana del Rey è un programma che va in onda tutti i giorni e che è arrivato a una buona stagione.

Ha imparato a dosare la voce e a sfruttare ritocchi meno invadenti – “Brooklyn Baby” nella sua semplicità , è una delle migliori tracce dell’album, che potrebbero cantare musiciste dalla reputazione incrollabile; è una che è stata capace di assorbire un’intera estetica da tumblr e di restituirla in termini chiari e evidenti tanto che ci sono cose che sono lanadelrey-ish e non è una cosa che riescono a fare tutti. Ora è passata dai colori desaturati, dai filtri un po’ cheap e dalle corone di fiori a qualcosa di altrettanto finto, ma a cui siamo disposti a credere un po’ di più: “Tropico”, il suo corto uscito lo scorso anno, serviva a chiudere visivamente il capitolo di “Born to Die/Paradise” prima del nuovo disco. Nuovo film, nuovo personaggio. E nella versione deluxe c’è anche “Florida Kilos” con la collaborazione di Harmony Korine: qualcuno qua, ha trovato un nuovo regista.